Kritik

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La Sicilia di Hess

Leonardo Sciascia

Dal Catalogo: Christian Hess (Palermo 1974)
 
Presentando nel 1957, a Roma, una mostra dell’arte contemporanea tedesca, Will Grohmann ad un certo punto scriveva: “Si ebbero nel 1920 anche degli outsider, che è impossibile catalogare con precisione e che comunque non raggiunsero, in seguito alla politica culturale inauguratasi nel 1933, quei risultati che si erano prefissi. Sorprendente è il fatto che i pittori più vigorosi come Theodor Werner, E. W. Nay e Fritz Winter abbiano continuato a lavorare anche dopo il 1933 e che nel 1945, dopo una apparente interruzione, siano riapparsi sulla scena pittori e scultori che si credevano perduti”. Dentro questa notazione si può inscrivere la sorte di Louis Christian Hess, ma con la non lieve variante che, morto l’anno prima, non poteva riapparire nel 1945, né le sue opere - trovandosi in gran parte fuori della Germania - potevano essere censite, catalogate e mostrate ad accrescere la sorpresa del critico di altro vigoroso pittore che aveva continuato a lavorare “anche dopo il 1933”. Ed erano sì riapparsi alcuni suoi quadri, in una mostra tenutasi a Monaco nel 1948; c’è però da credere non bastassero a dare un’idea del pittore che Hess era stato, se la critica ne faceva menzione alquanto generica: “dopo tanti anni si rivedono le opere di questo talento coloristico”. La parte più cospicua delle opere di Hess, quantativamente e forse anche qualitativamente, si trovava a Messina: uno dei luoghi dove il pittore aveva più lungamente soggiornato, e più tranquillamente, nella sua vita inquieta e travagliata. E sono quelle da cui è stata trascelta questa mostra, che vuole essere, oltre che un omaggio, un atto di restituzione che la Sicilia compie di un pittore, che l’ha amata e ritratta in tanti aspetti del suo paesaggio e della sua vita, alla cultura cui peculiarmente appartiene. Poiché se a prima vista, e per certi quadri, Hess può far pensare a Funi, a Casorati, a Carrà, a Sironi, a guardar bene vengono fuori marcate dissomiglianze, differenti caratteri, ascendenze e parentele più congeniali e più ovvie. E soprattutto vien fuori quel prevalere dell’elemento grafico che è considerato un denominatore comune a tutti i pittori tedeschi, anche a quelli che, come Hess, hanno lavorato - o sembrano aver lavorato - più sul colore che sul segno. Indubbiamente, ci troviamo di fronte a un pittore colto e composito, a un pittore che ha respirato la cultura europea del suo tempo, ne ha fatto esperienza, ne ha avuto evidenti suggestioni. E le sue cose possono avere per noi italiani l’importanza di un “test”, di una dimostrazione: che l’arte italiana degli Anni Venti e Trenta come è stata per lui tramite europeo, mediazione europea, è da considerarsi tout court europea. Il sogno di Hess era Parigi, dove mai riuscì ad arrivare: né giovanissimo, durante la guerra del ‘14, quando appena tredici invalicabili chilometri separavano il fronte tedesco su cui lui si trovava dalla capitale francese, né negli anni della maturità, vagando per l’Europa fino a Stoccolma (dove si imbatté, per il prelmio Nobel che gli avevano in quell’anno assegnato, soltanto in Anatole France: che era la Francia, ma non quella di Picasso e di Braque che Hess vagheggiava).

Forse, in questa preclusione, era un destino. Ma anche in Italia Hess riusci ad aver notizia, per usare una espressione, un titolo, di Ardengo Soffici, delle cose di Francia: e attraverso gli italiani. Non è poi senza significato il fatto che l’artista proveniente dal Centro Europa, maturato in più complesse esperienze, si trovasse a vedere e a dipingere, con leggero scarto di anni, le stesse cose che il giovane Renato Guttuso vedrà e dipingerà in quel suo felice periodo che prende nome da Scilla. Non allo stesso modo, ma le stesse cose.

Leonardo Sciascia