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					Roma – 
					Singolare pittore Christian Hess. Nato a Bolzano nel 1895, 
					ma vissuto esule per l’Europa, pacifista convinto, assertore 
					dell’internazionalismo dell’arte, ma vissuto fra due guerre 
					fuggendo gli “incredibili furori hitleriani”; una vita grama 
					e  infelicissima la cui testimonianza, invece, è affidata ad 
					opere di smagliante presenza mediterranea, tedesco ma 
					tuttora poco conosciuto in Germania (un po’ più in Italia 
					dove nel dicembre 1974 la Regione Siciliana ha promosso su 
					segnalazione di uomini di cultura una delle sue mostre 
					retrospettive). 
					
					Proprio in 
					questi giorni, a favorirne la riscoperta, l’Artmessage di 
					Roma ripropone, in collaborazione con il Goethe Institut, 
					oli, acquerelli e disegni di Hess del periodo tra il ’22 e 
					il ’38, almeno di quel che resta  delle sue opere; di quelle 
					che sono andate disperse o perdute in tutta Europa (dalla 
					Svizzera alla Svezia), di quelle che hanno preso la via di 
					collezioni non più rintracciabili, delle tante che per 
					sopravvivere fu costretto a vendere senza firmare e di 
					quelle (un anno di lavoro) che andarono bruciate 
					nell’incendio del Glaspalast di Monaco nel 1931. 
					
					Ci sembra che 
					sinora lo si sia ricondotto ai limiti, un po’ ordinari di 
					saldezza realistica e di gusto per il colore e che la sua 
					pittura sia ancora tutta da scoprire. Così scriveva nel ’30 
					il critico di una delle numerose mostre collettive cui Hess 
					aveva partecipato in patria. “Traspira dalle sue opere un 
					sentimento sereno e caldo per la natura e ed un non comune 
					senso coloristico”, oppure nel ’30 in una mostra a Monaco: 
					“Dimostra di saper portare la molteplicità della natura a 
					forme semplici fortemente pittoriche. E’ di benefico effetto 
					in raffronto col cerebralismo apparentemente problematico di 
					altri pittori. Eppure… 
					
					Eppure al di 
					là della facile retorica dell’uomo del nord innamorato del 
					sud,  i colori di Hess sono quelli in un Mediterraneo 
					rimeditato, sono quelli spessi, densi compatti di Carrà (gli 
					stessi bianchi gessosi, le ocre, i neri grigi e violacei sia 
					pure con frequenti bagliori rossi e rossastri e tutta la 
					gamma dei verdi e degli azzurri): l’impatto con la figura 
					umana  è quello, inconfondibile, tra il ’20 e il ’30 (del 
					Picasso del periodo “classico” e soprattutto di Sironi) di 
					quella pittura come scultura con figure assimilate a statue 
					con negli occhi quella stessa fissa cecità: le donne, poi, 
					incantate in una loro interrogativa malinconia: “Baronessa 
					con veletta”, “Donna con cappello nero”, “Modella 
					nell’atelier”, e quasi mai raffigurate per intero e raccolte 
					su uno sfondo ben strutturato, ma colte da un obiettivo 
					smagato che osi campi inconsueti, quasi sempre troppo 
					stretti e corti. 
					
					Ecco: stretti 
					e corti. Le figure umane, i paesaggi e persino le nature 
					morte e le composizioni in cui Hess  fa l’occhiolino a 
					Braque ed a Picasso, più a Braque che Picasso,  sembrano 
					rinserrati a forza nei limiti artificiali della tela e del 
					foglio, al di là della logica ineliminabile della cornice; 
					indoviniamo che i corpi vorrebbero spandersi liberamente 
					continuare a raccontarsi. La sensazione, superata 
					l’immediata leggibilità del linguaggio, è di un leggero 
					senso di disagio come si avrebbe nell’osservare la realtà un 
					po’ troppo da vicino. 
					
					Ritratti 
					femminili, paesaggi, scene popolari affollate di quella 
					varia umanità siciliana che fu tanto cara ad Hess, sembrano 
					parti mal ricomposte d’un solo affresco. E non a caso 
					l’affresco fu. tra i tanti, il suo interesse prevalente. 
					Proprio in quegli anni non aveva scritto Sironi “La pittura 
					murale si pone davanti al quadro moderno come il tutto alla 
					parte”? 
					
					Solo l’opera 
					affettuosa della sorella, che aveva sposato un italiano e 
					viveva a Messina,  salvò durante l’ultima guerra buona parte 
					degli oli e dei disegni di Hess ed ha permesso che la 
					perdita delle sue opere non fosse troppo rilevante. Il 
					rapporto con la sorella fu, senza dubbio, il legame più 
					solido di tutta la sua esistenza e nella spola 
					Monaco-Messina con lunghi soggiorni ininterrotti, gli fece 
					ripercorrere non solo simbolicamente quella che è stata (e 
					che è) la polarità di tutta la pittura europea, lo spirito 
					mediterraneo ed il plasticismo italiano e il misticismo 
					gotico e barocco. Se non si dimentica questo sotterraneo 
					conflitto ecco che “quel senso della natura” rivela 
					un’ambiguità insospettata, le scene di vita siciliana, il 
					facile folklore dell’ ”Indovino” e del “Ladro e 
					carabiniere”, degli uliveti, dei pescatori son forse, anche 
					facili caratterizzazioni da cui un pittore più sofisticato 
					si sarebbe astenuto, ma sono ben lungi dall’essere soltanto 
					la riproduzione, sia pure intensa, di un paesaggio. 
					
					Nel sole 
					attonito della Sicilia un fermento rivela una sofferenza al 
					di là dell’apparente leggibilità del soggetto. Non a caso in 
					“Asinello e fichidindia” e in “Caprone e fichidindia” le 
					foglie ed i cieli si deformano in una contorta grafia 
					espressionista. Anche Van Gogh dipingeva alberi, campi, 
					facce. Ma il trasalimento del pennello può rilevare il 
					trasalimento dell’anima. 
					
					E se i dati 
					biografici possono illustrare e commentare le opere (la 
					grave malattia ai polmoni, lo scioglimento dell’unico gruppo 
					artistico cui aveva aderito, Juryfreie, il Fuori giuria 
					accusato nel ’33 di essere un’unione culturale bolscevica, e 
					soprattutto i due tentativi di suicidio) ci sembra quanto 
					meno grottesco parlare per Hess di “serena pittura 
					mediterranea”. Dove anche la sua morte sotto il 
					bombardamento di Innsbruck nel 1944 si pone come l’epilogo 
					più drammaticamente coerente di una vita tanto travagliata. 
					A soli 49 anni.    
					
					
					                                                                                  
					Giuliana Mastrangeli  
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							  Due 
							oli di C. Hess dipinti a Messina: “Ladro e 
							carabiniere” del 1934 e “L’Indovino” del 1933. Sono 
							gli anni in cui l’artista, accusato di bolscevismo 
							nella Germania nazista,  si trasferisce a Messina 
							presso la sorella Emma, sposata ad un italiano. 
							Mentre in Germania avrebbe potuto dipingere solo di 
							nascosto, qui ritrova una sua libertà di 
							espressione  e dipinge un nutrito numero di opere 
							ispirate al paesaggio e all’umanità dell’isola. Nel 
							’34 si sposa con una svizzera, Cecilia Faesy, e 
							insieme a lei lascia Messina per la Svizzera, Ma nel 
							’36 ritorna nuovamente in Sicilia con la moglie, con 
							la quale però il legame si va allentando e presto si 
							spezzerà. Una profonda crisi spirituale lo porta 
							sull’orlo del suicidio, ma è confortato dalla 
							sorella e trova il coraggio di ripartire. La Sicilia 
							gli resterà sempre nel cuore. Nel 1974 la Regione 
							Siciliana, insieme all’Azienda turismo e il Goethe 
							Institut, organizza a Palermo una mostra 
							retrospettiva delle opere che riporta l’attenzione 
							della critica su quest’artista tormentato che voleva 
							dipingere per la pace e che fu invece costretto a 
							vivere tra due guerre e sotto due dittature. 
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