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								Progetto per una mostra 
					Espressionismo siciliano 
					 
					Sergio Spadaro  | 
					 
					
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						1.     
						
						Caratteri dell’Espressionismo storico 
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									 Uno degli antecedenti dell’Espressionismo tedesco degli 
						inizi del Novecento è da vedere  in quella “tendenza 
						anti-impressionista che si genera in seno 
						all’Impressionismo stesso come coscienza e superamento 
						del suo carattere essenzial-mente sensorio e che si 
						manifesta sul finire dell’Ottocento con Toulouse-Lautrec, 
						Gauguin, Van Gogh, Munch, Ensor” [G.C.Argan, L’arte 
						Moderna, Sansoni, FI 1990]. Altre solleci-tazioni e 
						fonti sono però da vedere nella stessa cultura della 
						tradizione tedesca, ad esempio “nella grafica e nello 
						Jugendstil nel complesso. Rimontano alla scoperta 
						della forza espressiva della scultura primitiva, della 
						pittura contadina su vetro o della xilografia medievale. 
						[…] Né è da dubitarsi, infine, che la filosofia e la 
						letteratura ottocentesche abbiano fatto da madrine 
						all’avvio verso il nuovo, così come Friedrich Nietzsche 
						e i pensatori ‘anticlassici’, che anticiparono le 
						tematiche della volontà e del Wollen, dell’atto 
						creativo” [Joachim Büchner, Espressionisti dal museo 
						Sprengel di Hannover, Mazzotta, MI, 1984]. Infine, 
						“uno dei motivi che confluisce nell’arte e nella cultura 
						tedesca che hanno dato origine all’Espressionismo è 
						quello dell’Ur-schrei, il “grido originario”, 
						cioè quello di una visione interiore della vita nella 
						quale l’uomo ricerca se stesso e l’autenticità di 
						un’esistenza veramente libera, come già espresso da 
						Meister Eckart condannato come eretico nel 1329” [Luigi 
						Rognoni, Introduzione a Arte tedesca fra
						le due guerre di Waldemar Jollos, Mondatori, MI, 
						1955]. A quest’ultimo riguardo tutti conoscono il 
						dipinto del norvegese Edward Munch del 1893, intitolato
						L’urlo (Skrik), che può “essere indicato 
						come un vero manifesto dell’allucinazione 
						espressionista”. 
						
						“Letteralmente espressione è il contrario di 
						impressione. L’impressione è un moto dall’esterno 
						all’interno: è la realtà (oggetto) che s’imprime nella 
						coscienza (soggetto). L’espressione è un moto inverso, 
						dall’interno all’esterno: è il soggetto che imprime di 
						sé l’oggetto. […] La deformazione espressionista non è 
						la caricatura della realtà: è la bellezza che, 
						passando dalla dimensione dell’ ideale a quella del 
						reale, inverte il proprio significato, diventa 
						bruttezza ma sempre conservando il suo segno di 
						elezione. […] Il brutto non è altro che un 
						bello caduto e degradato. […] Soltanto l’arte, come 
						lavoro puramente creativo, potrà compiere il miracolo: 
						riconvertire in bello quello che la società ha 
						pervertito in brutto. Da qui il tema etico fondamentale 
						della poetica espressionista: l’arte non è soltanto 
						dissenso rispetto all’ordine sociale costituito, ma 
						volontà e impegno di mutarlo. E’ quindi un dovere 
						sociale, un servizio a cui si adempie” [G. C. Argan, 
						L’arte moderna, citato]. 
						
						Due sono i gruppi pittorici che stanno all’origine 
						dell’Espressionismo: uno figurativo e l’altro che 
						porterà all’astrazione non geometrica. Il primo, Die 
						Brücke (Il ponte), sorse a Dresda fin dal 
						1903 su iniziativa di Ludwig Kirckner, Fritz Bleyl, Karl 
						Schmidt-Rottluff ed Erich Heckel; ai quali si uniranno 
						nel 1906 Emil Nolde, Max Pecstein e, nel 1908 e nel 
						1910, Kees Van Dongen e Otto Müller. Il gruppo da Dresda 
						si spostò a Berlino nel 1911, ma si sciolse 
						definitivamente nel 1913. Nella Brücke “due sono 
						i temi dominanti: la figura umana e l’ambiente che la 
						circonda, paesaggio e natura, città e architettura 
						urbana” [Joachim Büchner, Espressionisti dal museo 
						Sprengel di Hannover, citato]. Sotto un aspetto più 
						propriamente pittorico, “negli artisti della Brücke 
						c’è un progressivo rifiuto della spazialità in nome 
						della strutturazione bidimensionale, nel valore timbrico 
						del colore piatto, nel linearismo grafico” [Lara-Vinca 
						Masini, L’arte del Novecento, Editoriale 
						L’Espresso, RM, 2003]. 
						
						Il secondo gruppo, Der Blaue Reiter (Il 
						cavaliere azzurro), nacque a Monaco nel 1911, con 
						Wasilj Kandinskij, Gabriele Münter, Franz Marc; ad esso 
						aderirono Alexej von Jawlensky, August Macke ed Heinrich 
						Campendorck, Alfred Kubin, Paul Klee e, nel 1913, Lyonel 
						Feininger.  
						
						Pur non appartenendo ad alcun gruppo, non si possono non 
						citare gli austriaci Egon Schiele e Oscar Kokoshka, che 
						“spingono alle estreme conseguenze l’interiorità 
						romantica, portandola alla decomposizione della forma 
						sino a riassumere il barocco come accesa scrittura 
						psicologica” [Luigi Rognoni, Introduzione, 
						citato]. Nel 1912 escono il famoso fascicolo Der 
						BlaueReiter, curato da Kandisnskij e Marc, e del 
						primo uno dei più importanti documenti dell’arte moderna 
						e dell’Espressionismo in particolare, Della 
						spiritualità nell’arte (Uber des Geistige in derKunst). 
						
						Mentre la pittura della Brücke “assume il 
						carattere di una acutizzazione psicologica dell’oggetto 
						che l’artista filtra nella propria esperienza, con 
						libertà istintiva, […] quella del Blaue Reiter 
						parte invece da una rivolta totale, ponendo l’accento 
						sull’immediatezza spirituale della vita interiore, come 
						grido di liberazione dal terreno e dal fisico sino a 
						giungere poi con Kandisnskij all’armonia di un nuovo 
						ordine spirituale nella forma astratta” [Luigi Rognoni,
						Ibidem]. 
						
						In estrema sintesi e guardando ai movimenti artistici 
						cui daranno vita, “si identificano così due filoni 
						dell’Espressionismo: il primo, scaturito dalla Brücke 
						(e con varie componenti: dal Futurismo al post cubismo 
						picassiano fino al Dadaismo, al Surrealismo e anche alla 
						Metafisica), porterà alla Nuova Oggettività (Neue 
						Sachlichkeit) degli anni Venti e Trenta, 
						all’espressionismo realista messicano postrivoluzionario 
						(Rivera e Siqueiros) e al Realismo sociale europeo del 
						secondo dopoguerra. Il secondo filone, che si origina 
						dal Blaue Reiter, darà il via a tutte le 
						esperienze non figurative, sia nella forma 
						astratto-concreta e geometrica, che si originerà dal 
						concretismo di Malevič e degli stessi strutturalisti e 
						formalisti russi e dal Neo-plasticismo degli olandesi 
						Mondrian e van Doesburg (anche se filtrato dal Cubismo), 
						sia nelle forme che si svilupperanno nell’Espressionismo 
						astratto americano e nell’Informale europeo del secondo 
						dopoguerra” [Lara-Vinca Masini, L’arte del Novecento, 
						citato]. 
						
						Per quanto riguarda la Neue Sachlichkeit, va 
						precisato infine che essa “abbandona l’individualismo 
						espressionista e assume, nei letterati e nei pittori, 
						una posizione critica di fronte alla società tedesca. 
						L’osservazione è portata al realismo crudele che si 
						acutizza fino all’allucinazione ‘fiamminga’ di un Otto 
						Dix e al violento atto d’accusa contro la borghesia e il 
						militarismo nell’atroce disegno di un George Grosz. 
						Maggiormente legato all’esperienza espressionista, Max 
						Beckmann volge a un realismo che sembra riallacciarsi 
						alla pittura tedesca del sec. XV, e appare a Waldemar 
						Jollos “capace di condurre dalla smorfia al simbolo” 
						[Luigi Rognoni, Introduzione, citato]. 
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						 2.  
						Louis Christian Hess 
						espressionista in Sicilia  | 
					 
					
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						 LOUIS CHRISTIAN HESS (Bolzano 1895 – 
						Schwaz 1944) è da 
						considerare come il precursore – almeno in senso ideale 
						– dell’Espressionismo siciliano, anche se le sue opere 
						hanno cominciato ad essere conosciute ed apprezzate solo 
						a partire dal 1974, cioè dalla prima retrospettiva 
						tenuta a Palermo. Formatosi a Innsbruck e a Monaco, dove 
						frequenterà l’Accademia, compie nel 1925 il primo 
						viaggio in Sicilia, dove vive la sorella Emma sposata 
						con un commerciante di Messina. Da allora la Sicilia 
						sarà la sua meta abituale e, come dice Carl Kraus nel 
						catalogo per la mostra di Schwaz e Bolzano del 2008-09 (Ed. 
						Athesia, BZ), costituirà una svolta anche per la 
						sua pittura: “Bastano le prime impressioni ad aprire al 
						pittore un mondo del tutto nuovo, fatto di gente immersa 
						nelle proprie antiche tradizioni, di un paesaggio in cui 
						pulsano i miti classici, della incomparabile luce 
						mediterranea. Hess scrive agli amici rimasti in Germania 
						di aver trovato il paradiso […]”. 
						
						Proprio per la diversità di ispirazione e di esiti che 
						l’opera di Hess presenta, converrà tenere distinte le 
						due fasi. In quella presiciliana, quasi tutta la critica 
						concorda che Hess manifesta affinità e contatti 
						soprattutto con la pittura di Karl Hofer e di Max 
						Beckmann. Per il primo, è da tenere presente che anche 
						Hess fece parte dei pittori cosiddetti Jurifreie (i 
						Fuorigiuria), che si erano affiancati a quelli del
						Novembergruppe, operanti fin dal 1918. In Arte 
						tedesca fra le due guerre [citato], un testimone 
						come Waldemar Jollos recensisce le loro mostre del 1924, 
						del 1925 e 1929, che si erano tenute tutte al Lehrter 
						Bahnhof di Berlino. E poiché Hofer – di cui Jollos 
						apprezza “i tentativi di giungere a una nuova 
						architettura del disegno” – partecipava a queste mostre, 
						è evidente che i contatti con Hess erano avvenuti per 
						tale tramite. Comunque, poi Hofer farà una mostra di 
						quadri astratti nel 1933 (alla Galleria Flechtheim di 
						Berlino) e con ogni probabilità anche l’influsso se non 
						vero e proprio “astratto”, di gusto astrattizzante, di 
						certi quadri di Hess è probabile che derivi da lui  (ved.
						Case rosso-nero del 1933 o Composizione 
						del 1937).  
						
						Ma è con Beckmann che la pittura di Hess mostra maggiori 
						affinità. Già Carl Kraus, nel catalogo succitato, 
						riproduce l’Autoritratto con sassofono di 
						Beckmann del 1930 e si può vedere subito l’affinità 
						tematica con Prova al concerto n° 2 di Hess, del 
						1928/1930, dove ci sono due suonatori di fagotto, uno 
						stante e uno seduto dietro a un leggio. Il cromatismo 
						nero e angoscioso di Beckmann è poi richiamato ne Il 
						giocatore di scacchi del 1931. Anche se sarà l’oggettualismo 
						della realtà, discendente dalla Neue Sachlichkeit 
						di Beckmann, a influenzare maggiormente Hess. Come dice 
						Flavio Caroli, in occasione della grande retrospettiva 
						di Beckmann tenutasi alla Galleria Nazionale d’Arte 
						Moderna di Roma del 1996, “ricchezza del visibile, cioé 
						dell’infinità dei fenomeni, e ricchezza del mistero che 
						li anima, come d’altronde scrive, con qualche brutalità, 
						l’artista stesso: ‘Si tratta sempre di cogliere la magia 
						della realtà e di tradurre questa realtà nella pittura. 
						Rendere visibile l’invisibile attraverso la realtà. 
						Forse questo può suonare come un paradosso, ma è proprio 
						la realtà che costituisce il vero mistero 
						dell’esistenza’ “ [Ricchezza del visibile, “Il 
						Sole/24 Ore” del 25.2.1996]. 
						
						Prima di passare alla fase siciliana della pittura di 
						Hess, non si può non notare come la tematica dei suoi 
						quadri, in Germania, resti tipicamente vincolata a 
						un’ispirazione cittadina, rappresentata dagli “interni” 
						della gran quantità di opere con le “modelle” (Baronessa 
						con veletta, Donna con cappello nero, Donna allo 
						specchio del 1930; Dalla modista, Tre modelle, 
						Due modelle, Modella nell’atelier con pelliccia di volpe, 
						del 1932). 
						
						A quale “ricchezza” perverrà Christian Hess in Sicilia
						è facile constatare dalla visione delle sue opere. 
						Innanzitutto, la solarità della luce mediterranea 
						schiarirà anche la sua tavolozza. Abbandonati gli 
						“interni” borghesi, passerà subito a un diretto contatto 
						con la natura e con le persone della quotidianità 
						lavorativa (contadini, pescatori, muratori, ecc.). A 
						cominciare, fin dalla sua prima venuta a Messina, con 
						quell’Asinello e fichidindia (1925) che può 
						essere assunto a emblema della sicilianità dei suoi 
						tempi: già, perché ai tempi di Hess uno dei mezzi di 
						trasporto consueti era ancora l’asinello (ved. 
						l’acquarello del 1930 Donne sull’asino). Il 
						paesaggio dello Stretto sarà poi trasposto in vari modi 
						(Veliero e case del 1931, Veliero sullo 
						Stretto del 1933, Piccioni sulla terrazza del 
						1933, Agave, Kleine Terrasse e Antonia e 
						veliero del 1934, Paesaggio con binari e bandiera
						del 1935). Non si contano le opere dedicate alle 
						“barche”, ai “pescatori”, ai “bagnanti”. Persino le 
						nature morte, attraverso l’emblematicità caratterizzante 
						degli oggetti rappresentati, alluderanno alla natura 
						siciliana: Balcone in Sicilia del 1928 (con due 
						peperoni e piante grasse tipiche siciliane), Aguglie 
						sulla fruttiera del 1933 (ma i pesci tipici dello 
						Stretto sono poi raffigurati in uno splendido acquarello 
						e in un disegno), Natura morta con la Gazzetta 
						(dove ci sono due melanzane bianche tipiche del clima 
						locale) del 1933, Natura morta con quartara (con 
						i peperoni contorti) del 1933, o in quelle due nature 
						morte di gusto quasi cubistico del 1935 (con Fiasco e 
						pere e con Asso di fiori). Anche i personaggi 
						popolari del tempo saranno raffigurati, come 
						L’indovino del 1933 e Ladro e Carabiniere del 
						1934: e persino, a prova dei contatti e della comunanza 
						che egli aveva con la gente del luogo, nell’Autoritratto 
						come pescatore del 1933 (Hess si raffigura in primo 
						piano, nell’atto della “voga”, come si usava nello 
						Stretto).  
						
						Durante i soggiorni e la permanenza in Sicilia, Hess 
						ebbe anche modo di recarsi a Palermo, a Monreale, 
						all’Aspra, a Siracusa e Agrigento, perché ricercava 
						sempre – come peraltro ha fatto a Firenze o Napoli – le 
						“fonti” classiche. E ciò viene rispecchiato nella sua 
						pittura, come si può vedere in Torso giacente del 
						1928, Figure mitologiche del 1930 o persino 
						nell’inchiostro del 1938 dove una modella è ripresa come
						Mùtila. In tale ottica di riscoperta della 
						classicità vanno anche visti certi dipinti con gli 
						antichi monumenti di Messina (Nettuno del 1927, 
						con la statua del Montorsoli abbinata alle ciminiere e 
						ai boccaporti dei rimorchiatori, e Donne di Messina 
						del 1933, dove il monumento a Don Giovanni d’Austria 
						fronteggia la normanna, ma rimaneggiata nel 1200, Chiesa 
						dei Catalani). 
						
						Che tra gli ideali di Hess non ci fosse soltanto 
						l’individualità romantica espressionista, ma lo stesso 
						umanesimo classico di Goethe, lo si può dedurre da un 
						richiamo che egli fa nell’opera Il riposo dei 
						muratori del 1929: qui la figura in secondo piano 
						poggia il braccio su un cippo e si regge con la mano la 
						testa pensosamente. E’ un espresso richiamo alla posa 
						nella quale fu ritratto Goethe da J. H. Tischbein nel 
						1787. D’altra parte Hermann Bahr, tra i primi teorici 
						del movimento espressionista, si riferisce a Nietzsche (Nascita 
						della tragedia, 1871) ma anche a Goethe:”L’uomo è 
						andato oltre Nietzsche, o meglio, è tornato a Goethe; ma 
						non si accontenta più che l’arte ‘abbellisca’ la vita o 
						‘nasconda’ o trasfiguri il ‘brutto’, vuole che porti 
						essa stessa la vita, la crei da sé, come l’atto 
						primigenio dell’uomo. La pittura, dice Goethe, 
						rappresenta quello che l’uomo potrebbe e dovrebbe 
						vedere, non quello che l’uomo comunemente vede” [H.Bahr,
						Expressionismus, Monaco, 1916]. 
						
						Louis Christian Hess, che ha avuto un’esistenza tragica 
						e travagliata, tra difficoltà economiche e il clima 
						dittatoriale politico che lo spinse tante volte e 
						espatriare (anche le sue opere furono bruciate nei roghi 
						nazisti dell’entartete Kunst), e che purtroppo 
						finì la sua breve vita in conseguenza dei bombardamenti 
						angloamericani su Innsbruck, riuscì malgrado tutto a 
						portare a compimento i suoi ideali artistici in maniera 
						personalissima e originale, al punto che si può 
						affermare che egli, al contrario di tanti altri suoi 
						sodali della pittura, trovò “la conclusione dialettica e 
						conclusiva della contraddizione storica di classico e 
						romantico, intesi come ‘costanti’, rispettivamente, di 
						una cultura latino-mediterranea e di una cultura 
						germanico-nordica” [G.C.Argan, L’arte moderna, 
						citato]. 
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						3.     
						
						La triade postbellica del realismo sociale  | 
					 
					
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						Ci sembra giusto prendere le mosse da quella triade di 
						pittori che, a partire almeno dalla fine della seconda 
						guerra mondiale, era indicata come maggiormente 
						rappresentativa di quella tendenza della arte italiana 
						denominata “realismo sociale”: Renato Guttuso, Giuseppe 
						Migneco e Saro Mirabella. Pittori che, in sede politica, 
						erano compagnons de route del più grande partito 
						organizzato del movimento operaio, il P.C.I. (Guttuso 
						addirittura fece parte dei suoi organi direttivi e 
						affiancò sempre, in sede critico-teorica, la stampa di 
						tale partito). Peraltro, come fa Luciano Caramel, è 
						opportuno ricordare pure che Roman Jakobson, già nel 
						1921, metteva in guardia sull’ambiguità e non 
						definitorietà del termine “realismo”, perché “teorici e 
						critici dell’arte non giungono a distinguere i vari 
						concetti che si celano sotto quell’etichetta, li 
						trattano come un sacco che si possa allargare a 
						dismisura per fargli contenere qualunque cosa” [Prefazione
						a Renato Guttuso, opere Fondazione 
						Francesco Pellin, 
						Mazzotta, MI, 2005]. 
						RENATO GUTTUSO 
						(Bagheria [PA] 1912 – 
						Roma 1987), che di quella triade fu la punta di 
						diamante,firmò già i primi dipinti nel 1924, dodicenne. 
						Agli inizi seguì in parte il pittore futurista sui 
						generis Pippo Rizzo e la sintesi “novecentesca”, ma 
						ebbe anche modo di guardare ai pittori di carretti del 
						suo paese natale e fu forse grazie a tale formazione che 
						l’elemento “popolare” nella sua arte rimase sempre 
						presente. A metà degli anni Trenta peraltro – come 
						afferma Enrico Crispolti, che dell’opera di Guttuso si 
						può considerare il massimo conoscitore e il più 
						esauriente descrittore – “già costituisce il ceppo 
						originario e fondamentale della propria poetica: la 
						poetica realista o poetica della naturalezza [in 
						R.Guttuso, opere Fondazione Francesco Pellin, Ibidem]. 
						Crispolti, che ha curato un Catalogo generale dei 
						dipinti guttusiani in quattro volumi [Mondatori, MI, 
						1983-1989], suddivide l’opera del pittore in cinque 
						periodi (“formazione”fra gli anni Venti e Trenta, 
						“realismo espressionista”nei primi anni Quaranta, 
						“postcubismo narrativo” nei secondi anni Quaranta, 
						“realismo esistenziale e della memoria” negli anni 
						Cinquanta e Sessanta, “realismo allegorico” negli anni 
						Settanta e Ottanta). Poiché in questa sede non si 
						può ripercorrere il percorso guttusiano in maniera 
						dettagliata, ci limitiamo a qualche precisazione. 
						Guttuso conoscerà Picasso nel 1946 (a Parigi) e da 
						allora ne nascerà un’amicizia che durerà tutta la vita. 
						Il suo “postcubismo” guarda alle “novità della pittura 
						picassiana da Guernica (1937) in poi e dispiega a 
						una dimensione quasi epica un racconto di immagini 
						tipiche del lavoro contadino e operaio”(Fuga 
						dall’Etna, 1939; Ragazze di Palermo, 1940; 
						Crocifissione, 1940/41) [E.Crispolti, Ibidem]. 
						Non perciò il cubismo “sintetico” degli anni Dieci e 
						Venti, o quello braqueiano, più formalistico. Il suo 
						realismo diventa poi “esistenziale” e “memoriale”, sia 
						per la forte caratterizzazione di polemica sociale 
						(ciclo di Scilla, 1949/50; Portella della Ginestra, 
						1953), sia per l’attenzione a una realtà sociale 
						emergente in tempi di massa (Boogie-woogie, 1953;
						La spiaggia, 1955/56) e infine perché, col ciclo 
						dell’Autobiografia (1966) entra in gioco una 
						componente nuova, la memoria. L’attenzione memoriale e 
						introspettiva, infine, declinerà in composizioni che 
						riassumono allegoricamente la condizione individuale e 
						collettiva dell’uomo contemporaneo, in cui via via 
						diventerà sempre più acuto un senso di malinconia e 
						meditatio mortis collegato a uno sfrenato e tragico 
						erotismo (I funerali di Togliatti, 1972; Caffè 
						Greco, 1976; Melancholia nova, 1980; La 
						visita della sera, 1982; Spes contra spem, 
						1982). 
						
						Per quanto poi riguarda più da vicino quello che con 
						Franco Russoli si può chiamare il suo “convulso 
						espressionismo mediterraneo”, sono tre gli elementi che 
						fanno perno nella sua pittura: a) un contatto sempre 
						pieno e dispiegato col mondo della natura sensibile; b) 
						una presa quasi tattile del suo oggettualismo, che con 
						Max Beckmann si può chiamare “autentico amore per gli 
						oggetti della apparenza intorno a noi e per i segreti 
						profondi della nostra vita interiore” [in una delle 
						Drei Briefe an eine Malerin, Tre lettere a una pittrice, 
						1948); c) un uso sempre acceso, passionale e vitalistico 
						del colore, che si può basare sia su accordi che su 
						dissonanze, fino a diventare all’ultimo simbolicamente 
						timbrico. 
						
						Queste note sull’arte di Guttuso sarebbero incomplete, 
						se non accennassimo a un’interpretazione psicoanalitica 
						su di essa, espressa da Dominique Fernandez. Il quale 
						vede nel bagherese il “primo, vero pittore siciliano: 
						ossia non soltanto nato in Sicilia, ma impregnato di 
						quella sicilianità che caratterizza tutti i grandi 
						scrittori dell’isola”. Guttuso, secondo Fernandez, non 
						dimenticherà mai “lo spettacolo barocco della lussuosa 
						policromia” dei mercati zeppi di merci (es. La 
						Vucciria), né l’origine infantile e popolare della 
						sua arte. E siccome, quando inizierà a dipingere, la 
						pittura italiana  era ancora chiusa e scura, non avendo 
						avuto né i suoi Fauves né il suo Picasso, è lui 
						che finalmente “l’aveva aperta, scossa, maltrattata e a 
						volte malmenata, certo, ma riportata alla vita”. Però 
						egli “riuscì molto meglio con il registro negativo della 
						violenza subìta che con quello positivo della forza 
						operaia”. Come Vittorini, quello “ferito di 
						Conversazione in Sicilia, raccoglie il lamento di un 
						mondo offeso, più che esortare i proletari alla rivolta. 
						Il Guttuso migliore è rimasto 
						un 
						siciliano autentico, ovvero un cantore della tragedia e 
						della morte, della disfatta e del massacro, a dispetto 
						dei suoi principi rivoluzionari”. Insomma Guttuso non 
						avrebbe dipinto altro che Il Trionfo della morte 
						di Palazzo Abatellis [Renato Guttuso, siciliano, 
						Ibidem]. E forse, guardando a quanto Guttuso ha 
						fatto dal periodo introspettivo e memoriale in poi, in 
						particolare guardando al suo erotismo e alla sua 
						sensualità, si spiegano meglio malinconia e meditatio 
						mortis di gusto barocco (persino ne La visita 
						della sera la tigre è un simbolo di morte), perché 
						sono l’altra faccia della sua soggezione alle forze 
						istintuali della Grande Madre mediterranea.  
						 
						GIUSEPPE MIGNECO 
						 (Messina 1908 – 
						Milano 1997) emigra a Milano nel 1931 e inizialmente si 
						mantiene con lavoretti pubblicitari e come grafico alla 
						Rizzoli. Solo quando nel 1934 si mette in contatto con 
						Birolli e Raffaele De Grada, entrerà nel vivo della 
						pittura contemporanea. Nel 1937 è tra i fondatori del 
						movimento di “Corrente”. Nel 1939 partecipa alla prima 
						mostra del movimento alla sede della Permanente. Pur 
						praticando il realismo sociale come Guttuso, a 
						differenza di lui - che era organico al partito fino al 
						punto di rompere l’amicizia con Sciascia per restare 
						fedele alla “verità ufficiale” - Migneco fu sempre 
						autonomo e intellettualmente indipendente. 
						Nel 1942 parteciperà al Premio Bergamo con Cacciatori 
						di lucertole. Richiamato alle armi, potrà riprendere 
						la pittura solo nel 1945. Da quel momento si 
						susseguiranno le sue mostre, o le sue partecipazioni a 
						esposizioni collettive, in Italia e all’estero. 
						L’espressionismo mignechiano sarà sempre legato alla 
						tematica sociale della sua cerchia “realistica” 
						(pescatori, contadini, ecc.). Agli influssi vangoghiani 
						iniziali, subentrerà via via un suo modo tipico di 
						spaziare le figure, che lo ricollega da un lato al 
						muralismo messicano, e dall’altro a una caratteristica 
						tecnica del Fauvisme: quella di marcare gli spazi 
						interni con il cloisonnisme. Inoltre i fondi dei 
						suoi quadri vengono espressivamente “movimentati” in 
						vario modo: erbe, fiori, reti, pietruzze delle spiagge 
						o, quando mancano i richiami tematici espressi, con 
						strisce ortogonali. E’ per questo che Antonio Di Genova 
						ha definito Migneco “un intagliatore di legno che 
						scolpisce col pennello”, mentre “nei suoi paesaggi e 
						nelle sue figure c’è un’immobile atemporalità, che 
						richiama l’eco della tradizione decorativa e narrativa 
						dei carrettini siciliani, che ne riconduce l’opera ad 
						arcaiche radici mediterranee”. 
						SARO MIRABELLA 
						
						(Catania 1914 – Roma 1972) fa i suoi primi studi presso 
						un pittore locale (Saro Spina). Si trasferisce a Roma 
						nel 1936 e verrà accolto dal pittore Quattrociocchi, del 
						quale sposa la figlia. Frequenta l’Accademia di San Luca 
						e la scuola di nudo. Durante la guerra farà il 
						partigiano. Dopo la liberazione è assunto da Guttuso al 
						Liceo artistico, come assistente. Diventerà titolare per 
						concorso della cattedra di Figura disegnata, quella di 
						Guttuso, e sarà nominato direttore dello stesso liceo. 
						Fin dagli inizi è oppositore del “Novecento” e col 
						“Fronte nuovo delle arti” diventerà uno dei maggiori 
						esponenti del realismo. Nel ’49 si reca con Guttuso a 
						dipingere a Scilla. Parteciperà a quattro Biennali e a 
						quattro Quadriennali romane. Le sue opere, oltre che nei 
						musei italiani, sono anche al Puskin di Mosca. 
						
						Quello che caratterizza Mirabella è il suo oscillare fra 
						opposte tendenze: quella astratta iniziale del movimento 
						“Forma Uno” e quella realistica, incarnando in sé 
						l’anima del Ponte e quella del Cavaliere 
						Azzurro. Il suo è un astrattismo d’impianto 
						geometrico, nel quale risolve anche certi paesaggi in 
						cui le forme naturali sono riconoscibili (come farà il 
						primissimo Mondrian). Invece, dopo il periodo realista, 
						il ritorno all’astratto dal 1969 in avanti avrà una 
						strutturazione meno rigida che l’avvicina all’Informalismo. 
						La fase realistica è quella in cui il suo espressionismo 
						ha dato le prove migliori. Il suo colore, sempre molto 
						acceso, si basa su forti contrasti . La sua tematica non 
						concernerà soltanto i consueti contadini e pescatori, ma 
						ogni tanto avrà soggetti insoliti, come i “buoi 
						squartati” che richiamano Soutine (1953 e 1960). 
						Mirabella è stato anche un ottimo acquafortista. 
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						 4.  
						Artisti nati entro il 1910  | 
					 
					
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						 ELIO ROMANO 
						(Trapani 1909 – 
						Catania 1996) è vissuto a Catania, dove frequenterà la 
						bottega di Saro Spina, come Mirabella e altri. La sua 
						vera formazione la farà a Roma , alla scuola del nudo e 
						come allievo di Felice Carena. Nel 1929 frequenterà 
						l’Accademia di Belle Arti di Firenze e le “Giubbe Rosse” 
						(Montale, Vittorini, ecc). In séguito andrà a Parigi, 
						spinto dall’amore per Bonnard e Cézanne. Ma allo scoppio 
						della guerra ritornerà definitivamente a Catania, dove 
						farà il docente all’Accademia di Belle Arti.  
						
						Oltre alle mostre prevalentemente in Italia, parteciperà 
						alla Quadriennale di Roma (’51, ’59, ’63 e ’71) e alla 
						Biennale di Venezia (’36 e ’50). La pittura di Romano si 
						caratterizza per la tematica della terra e del mondo 
						contadino dell’interno (in particolare fra Assoro e 
						Nissoria, nei monti Erei). Predilige il paesaggio e le 
						nature morte, anziché la figura. Rispetto all’iniziale 
						postimpressionismo che guardava a Cèzanne, la sua 
						pittura si fa più espressionistica in séguito, con un 
						dettato fortemente segnico. Romano resterà un solitario 
						isolato, in ciò indotto dal suo temperamento. Come ebbe 
						a dire di sé, “dipingo sempre le stesse cose e in fondo 
						sempre lo stesso quadro, anche se il soggetto è 
						diverso”. Frase che non è limitativa, ma esprime la 
						fedeltà a se stesso e al proprio mondo. 
						LIA NOTO in PASQUALINO 
						(Palermo 1909 – 
						Ivi 1998) è “il miglior pittore siciliano, dopo 
						Guttuso, della sua generazione”, come disse Raffaele De 
						Grada nel 1992. La sua casa palermitana sarà sempre 
						aperta ai visitatori e a quanti si interesseranno di 
						pittura d’avanguardia. Fa le prime esperienze col 
						futurista Pippo Rizzo. Dal 1937 al 1940 dirige una 
						propria e famosa galleria. Fece parte del “Gruppo dei 
						Quattro”, tra il 1932 e il 1937, con Guttuso, Nino 
						Franchina, e Giovanni Barbera. Ha partecipato alla 
						Biennale di Venezia (’42 e ’44) e alla Quadriennale di 
						Roma (’31, ’35, ’39 e ’48). La critica sottolinea nella 
						pittura della Noto una vena intimistica, che si 
						contrappone all’acceso colorismo guttusiano.  
						
						Secondo Vittorio Fagone, la pittrice “ha dipinto 
						ossessivamente delle figure, ha trovato il paesaggio 
						tardi, e poi ha dipinto sempre uno stesso paesaggio (gli 
						agrumeti e la propria casetta di campagna di Aquino, 
						sotto Monreale)”. In ogni caso la sua ricerca di 
						essenzialità e di semplificazione della forma è 
						ammirevole per i risultati che riesce a conseguire, 
						anche se la collocazione delle sue figure nello spazio 
						risente di una certa “primordialità”. Sulla pittrice 
						esistono due importanti monografie, edite dal Milione 
						(MI, 1974) e da Sellerio (PA, 1989). 
						GIANNI BECCHINA o GIANBECCHINA 
						(Sambuca di Sicilia 
						[AG]  1909 – Palermo 2001) fa i primi passi grazie a un 
						decoratore del suo paese natale, che lo assume come 
						garzone. Frequenta più tardi l’Accademia di Belle Arti 
						di Palermo e si accompagna agli artisti d’avanguardia 
						del “Gruppo dei Quattro”. A Milano conosce Beniamino 
						Joppolo e, suo tramite, entra in contatto col gruppo di 
						“Corrente”. Collabora come illustratore di strisce al 
						“Corriere dei Piccoli”. Parteciperà alla Biennale di 
						Venezia nel 1938 e nel 1954, quando con la Zolfara 
						vincerà il premio “Bevilacqua-La Masa”. Farà mostre 
						anche all’estero. Anche se in occasione della grande 
						retrospettiva agrigentina del 2007 il figlio 
						dell’artista, che dirige l’omonima fondazione che cura 
						il suo lascito pittorico, suddividerà la produzione di 
						Gianbecchina in otto sezioni, si può dire che la sua 
						pittura è contrassegnata sempre dalla tematica di una 
						certa sicilianità tradizionale (così come determinate 
						sezioni sono solo “per tema”: “Gli affreschi del sacro”, 
						“Il ciclo del pane”, ecc.). Si può aggiungere anzi che, 
						malgrado le frequentazioni giovanili con i pittori più 
						all’avanguardia, Gianbecchina resterà legato a una 
						pittura che rifiuta ogni sperimentalismo e, per certi 
						aspetti, rientra culturalmente in una “visione” della 
						Sicilia piuttosto arcaica e folcloristica, che trova 
						riscontro presso un pubblico pittoricamente meno 
						educato. Da questo punto di vista è, forse, la 
						“presenza” meno espressionistica. 
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						 5.  
						Artisti nati fra il 1911 e il 
						1920  | 
					 
					
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						 GIUSEPPE MAZZULLO 
						(Graniti [ME] 1913 – 
						Roma 1988) è il primo degli scultori in cui ci 
						s’imbatte. Dal paese natio (nomen omen, si 
						potrebbe dire guardando al suo futuro) si trasferisce a 
						Roma nel 1939. E lì diventerà docente di scultura 
						all’Accademia di Belle Arti. Ricordiamo le sue 
						esposizioni alle Quadriennali romane ( ’35, ’39, ’43, 
						’47, ’51, ’55, ’59, ’63 e ’72) e alla Biennale di 
						Venezia (’50, ’52, e ’54). Ha anche esposto molto 
						all’estero, in Europa, in America e in Giappone.  
						Dice Guido Giuffré: “E’ noto come […] Mazzullo abbia non 
						tanto scoperto la pietra quanto si sia in essa 
						riconosciuto e da quel momento l’abbia privilegiata fino 
						ad adottarla in linea quasi esclusiva” [Mazzullo, 
						Mondadori, MI, 1985, catalogo per la mostra a Palazzo 
						Zanca di Messina]. Pur passando attraverso influssi 
						espressionisti e cubisti, Mazzullo – prosegue il critico 
						– “tendeva inconsapevolmente […] a una dimensione 
						primigenia e ancestrale”. Carattere che riscontra anche 
						Lucio Barbera, che parla di “respiro solido della 
						materia, da cui […] nasce l’impronta antica e moderna 
						che caratterizza le opere dello scultore siciliano, il 
						senso ‘arcaico’ che avvolge la sua scultura” [Mazzullo, 
						Ibidem]. Peraltro, a partire dagli anni Sessanta, 
						nella sua opera viene riscontrato un carico di 
						sofferenza, che si riferisce a una sfera panica e 
						archetipica. 
						
						In ogni caso Mazzullo non lavorò soltanto la “sua” 
						pietra lavica e il “suo” granito: al Museo 
						internazionale della Ceramica di Faenza si conserva un 
						suo pannello in ceramica (cm. 142 x 104) sul tema della 
						maternità, che vinse il premio Faenza del 1942. Infine, 
						dal 1981 esiste a Taormina, nell’antico Palazzo De 
						Spuches-S. Stefano del sec. XIV, un museo permanente 
						della sua opera, che conserva anche i disegni superstiti 
						della sua giovinezza, degli oltre 500 che esistevano 
						nella casa paterna di Graniti. 
						EMILIO GRECO 
						(Catania 1913 – Roma 
						1995) è l’altro scultore che vanta la Sicilia, la cui 
						grandezza si può desumere dall’affermazione che fece una 
						volta Picasso, come “il più grande disegnatore che 
						abbiamo in Europa”. La sua prima formazione avvenne 
						quando, tredicenne, entrò a lavorare nella bottega di 
						uno scultore di monumenti funerari, dove imparò sia a 
						sbozzare il marmo che a modellare la creta. Dopo una 
						lunga parentesi dovuta alla guerra, si fece conoscere 
						con le teste virili e con quel Lottatore 
						(‘47/’48) che richiamano gli esempi romani del I° sec. 
						a.C., come quelli di un Norbano Sorice e di un Lucio 
						Cecilio Giocondo. D’altra parte sia alla statuaria 
						romana che etrusca, più ancora di quella greco-classica, 
						la sua scultura guarderà sempre, anche se filtrerà il 
						suo modellato attraverso gli apporti derivanti dagli 
						esempi novecenteschi (si vedano esemplarmente le 
						torsioni e il restringersi e l’allargarsi delle forme in
						Grande Bagnante n° I e in altre Bagnanti). 
						Realizzando comunque la nietzscheana alternanza fra i 
						principî apollineo e dionisiaco. 
						
						Greco lavorò prevalentemente la figura umana (il 
						Monumento a Pinocchio del 1956 resta un’eccezione) 
						e, nell’àmbito della figura, ebbe una preferenza per 
						quelle muliebri, tanto che Leonardo Sciascia ne 
						sottolineava la vena tipicamente e brancatianamente 
						catanese, quella del vagheggiamento della donna. Non si 
						contano le committenze famose, come la porta centrale 
						del Duomo di Orvieto (1961-64), gli altorilievi per la 
						chiesa dell’Autostrada del Sole (1961), il monumento in 
						bronzo a Giovanni XXIII per San Pietro (1965). Né 
						vanno dimenticati i lavori eseguiti per la committenza 
						estera, Giappone compreso. 
						
						Per Greco, e per la fama universale che raggiunse, è 
						anche fuor di luogo elencare le varie esposizioni che 
						fece durante la vita. Ci piace invece ricordare i vari 
						musei a lui dedicati, come quello di Catania (il più 
						recente), quello di Sabaudia dove il maestro riposa e 
						quello di Orvieto, senza dimenticare il museo all’aria 
						aperta di Hakone e le sale permanenti all’Ermitage di 
						San Pietroburgo e al Puškin di Mosca. 
						SEBASTIANO MILLUZZO 
						(Catania 1915) effettua le prime esperienze nello studio 
						del decoratore Cacciaguerra, ma è a Roma dal 1936 che fa 
						la scuola libera di nudo e si diploma al Liceo Artistico 
						nel 1939. Dall’anno successivo intraprenderà l’attività 
						didattica negli istituti medi e superiori. Negli anni 
						Sessanta fonda nella sua città la rivista “Sicilia 
						Arte”. Partecipa alle Quadriennali romane (’48,’51, ’56, 
						’60 e ’64) e alla Biennale di Venezia (’48, ’50 e ’56).
						 
						La maggior parte dei critici che si sono occupati di lui 
						ha sottolineato il suo continuo sperimentare attraverso 
						i media (oltre che pittore e incisore, è 
						decoratore e scenografo) e attraverso gli stili (persino 
						con un’astrazione ispirata dalla musica, come in 
						Concerto per piano e orchestra n° 19 di Mozart, 
						  1995, e Beethoven Sinfonia Eroica, 1996). In 
						Le maniere di Sebastiano Milluzzo [Maimone Ed., CT, 
						1996] Giuseppe Frazzetto parla di arte “mercuriale”, 
						assimilando l’artista a Picasso. “Mercuriale sta per 
						pluralità di maniere (alla Giorgio Agamben, cioè 
						ciascuna come ‘esemplare’). Il polimorfismo stilistico 
						di Milluzzo […] può quindi ricondursi all’istanza 
						sostanzialmente personalistica che l’arte contemporanea 
						ci ha abituato a cogliere innanzitutto negli stili di 
						solito genericamente (e imprecisamente) definiti 
						espressionisti. […] E vano sarebbe chiedersi in quale 
						delle sue ‘maniere’ Milluzzo sia veramente se stesso. Lo 
						è in tutte”. Aggiunge Silvano Nigro: “Milluzzo sfugge, 
						proteiforme. E’ ‘una sola moltitudine’, alla Pessoa. 
						Libero nella sua realtà d’invenzione, può assumere mille 
						volti. Può essere uno e multiplo insieme”. D’altra 
						parte, intervistato da Carmela Gandolfo, dichiara egli 
						stesso che “cambiare continuamente prospettiva e punto 
						di vista fa parte del mio modo d’essere. […] A me sembra 
						che le tecniche siano differenti, ma che la mia 
						sensibilità artistica sia sempre la stessa”.  
						 
						Sulla sua pittura , Renato Civello 
						[in Milluzzo, Lamda Editrice, CT, 1969] afferma 
						che egli “ha considerato con ammirazione il meglio di 
						Matisse e dei Fauves” e che nei suoi olî 
						“ricorrono agli inizi accenti mafaiani e scipioniani”. 
						Giuseppe Frazzetto segnala la sua “predilezione per un 
						geometrismo sui generis. […] Un’esigenza di 
						ordine, quindi, giacché la modulazione stilistica non 
						esclude affatto la lucidità d’analisi  e la verifica di 
						una logica formale, e anzi le richiede, se non vuole 
						restare sospesa sul nulla del capriccio. […] La ricerca 
						di razionalità caratterizza anche il bianco e il nero 
						dei disegni, che spesso evitano qualsiasi accenno di 
						chiaroscuro e sembrano puntare piuttosto alla 
						mentalizzazione d’un esile tratto esclusivamente 
						lineare. […] Ma è nell’uso del colore che s’evidenzia 
						una fedeltà a quella rimeditazione di suggestioni del 
						Fauvismo e della Scuola Romana che caratterizza la sua 
						produzione dalla fine degli anni ’30 e dei primi ‘40”. 
						Per la scultura, Civello dice che 
						“sfugge alle tentazioni del filamentismo giacomettiano, 
						anche se, più che soffermarsi sul volume in sé, 
						l’interesse converge sul rapporto spazio-linea”. Mentre 
						Frazzetto afferma che “le sue sculture sono quasi sempre 
						‘frontali’, che secano lo spazio come se lo spazio fosse 
						costituito dall’interminabile sovrapporsi di superfici 
						(“un figurativo stilizzato fin quasi a giungere all’aniconico, 
						e con riferimenti totemici”, scrisse già una volta)” 
						Peraltro Milluzzo ha avuto modo di indagare questa 
						sicilianità dalle aperture mitiche sia in campo 
						religioso (celebre la Pala d’Altare per la catanese 
						Chiesa di Sant’Agata) che profano (Paladini, 
						Sull’Etna, ecc.).
						 
						SALVATORE FIUME 
						(Comiso [RG] 1915 – 
						Milano 1997) vinse a sedici anni una borsa di studio che 
						gli permise di frequentare l’Istituto d’Arte di Urbino, 
						dove conseguì una profonda conoscenza delle varie 
						tecniche grafiche. Nel 1936 approdò a Milano dove 
						conobbe Quasimodo, Dino Buzzati e Raffaele Carrieri. Nel 
						1938 si trasferì a Ivrea, presso la Olivetti (art 
						director di tecnica e organizzazione), e si 
						affiancherà a Franco Fortini e Leonardo Sinisgalli. Per 
						potersi dedicare interamente alla pittura, lascerà la 
						Olivetti e si trasferirà a Canzo, vicino a Como, dove 
						adattò ad abitazione una vecchia filanda. 
						
						Alla Biennale di Venezia del 1951, il suo trittico 
						Isola di Statue (ora nei Musei Vaticani) ottenne 
						molto successo e gli valse una commissione per le 
						riviste “Time” e “Life” di New York. Fra il 1949 e il 
						1952 compose a Perugia un ciclo di grandi dipinti 
						sull’antica gloria della città, richiamandosi a Paolo 
						Uccello e Piero della Francesca. Tali dipinti sono poi 
						stati donati dalla famiglia Buitoni, committente 
						dell’opera, alla Regione Umbria (ora al Palazzo Donini 
						di Perugia). Nel 1950 Giò Ponti gli commissionò un 
						dipinto (48 metri per tre) per le pareti del 
						transatlantico Andrea Doria, che a séguito 
						dell’affondamento della nave giace ora in fondo al mare. 
						Nel 1962 una sua mostra itinerante di centro quadri 
						toccò diversi musei tedeschi (fra cui Colonia e 
						Ratisbona).  
						
						Nel 1973, insieme col fotografo Walter Mori, si recò in 
						Etiopia (Valle di Babile, presso Harar) dove dipinse un 
						gruppo roccioso con vernici marine anticorrosione. 
						L’anno successivo, nella mostra antologica presso il 
						Palazzo Reale di Milano, espose la Gioconda Africana 
						(ora nei Musei Vaticani) e realizzò una sezione delle 
						rocce dipinte in Etiopia, che occupò quasi l’intera Sala 
						delle Cariatidi. Nel 1975 rivitalizzò gratuitamente il 
						centro storico della cittadina calabrese di Fiumefreddo 
						con varie opere. E dopo mostre al Principato di Monaco e 
						all’Accademia di Francia a Roma, fece nel 1983 un 
						viaggio in Polinesia per rintracciare le orme di Gauguin 
						(donando un proprio dipinto al Museo locale). Il suo 
						debutto come scultore (pietra, bronzo, resina, legno e 
						ceramica) avvenne a Milano nel 1994: sue statue 
						finiranno al Parlamento Europeo di Strasburgo, al San 
						Raffaele di Milano, al Museo di Portofino e a Marsala 
						(la Fontana del vino).  
						
						Fiume fu anche scrittore. Le sue opere, oltre che nei 
						Musei Vaticani, si trovano all’Ermitage di San 
						Pietroburgo, al MOMA di New York, al Museo Puškin di 
						Mosca e al Museo d’Arte Moderna di Milano. Sono due le 
						direttrici che caratterizzano l’opera di Fiume: una vena 
						fantastica e mitopoietica e una componente esotica e 
						primitivistica (ved. l’Etiopia e il viaggio sulle orme 
						di Gauguin ad Haiti). A tal riguardo, sono rimaste 
						famose l’Isola di Statue (1949) e la Città di 
						Statue (1950), dove le figure tondeggianti tendono a 
						porsi come feticci misteriosi e misticheggianti. 
						I motivi “orientali” e “africani” ritornano spesso: come 
						ne La visita del Pascià, in Dibattito sulla 
						donna, in Donna somala distesa, Donne al 
						balcone, Donne di Harar, Gioconda Africana, Mulatta in 
						giallo, Personaggio del teatro Kabuki, Ritratto 
						di cantante somala). Ma sono anche frequenti le 
						“rivisitazioni” di maestri del passato (De Chirico, 
						Picasso e il motivo del toro, Modigliani, Velasquez, 
						Goya e Raffaello). 
						Con PIPPO CONSOLI 
						(Mascalucia  [CT] 
						1919) l’espressionsismo siciliano trova una delle sue 
						punte più rappresentative. Perché il temperamento 
						vulcanico e carsicamente effusivo dell’artista si sposa 
						alla sua grande cultura (sia figurativa che non). 
						Consoli infatti è storico dell’arte ed è stato 
						Sovrintendente alle Belle Arti. 
						
						Dal paese natio si trasferisce a Catania nel 1930. Fa 
						studi classici e conseguirà la laurea in Lettere 
						moderne, a indirizzo artistico, solo nel 1946, perché 
						richiamato alle armi e inviato a Rodi, viene catturato 
						dai tedeschi e internato in vari lager (da ultimo 
						a Wietzendorf). Da allora il lavoro alle Belle Arti lo 
						porta in varie città: Chieti, Milano, Agrigento, 
						Catania, Messina. Tramite Saro Mirabella partecipa alla 
						Quadriennale romana del ’48. Al Premio Suzzara nel ’50 
						vince un premio in natura con un disegno di Contadino 
						che si disseta. L’anno successivo partecipa ancora 
						al Premio Suzzara con Strage di Portella della 
						Ginestra, che verrà acquistato dalla Federazione del 
						PCI di Pescara per essere regalato a Giuseppe Di 
						Vittorio, e da questi sarà lasciato alla Segreteria 
						della CGIL di Roma, dove tuttora si trova. 
						 
						
						Farà via via mostre in varie città. In occasione 
						dell’antologica di Catania del 1954, Leonardo Sciascia 
						dice della sua pittura: “In forza di una sua nativa 
						adesione a motivi culturali squisitamente siciliani, le 
						suggestioni e le esperienze più disparate della cultura 
						figurativa attuale, moderna, egli porta quasi sempre a 
						un punto di perfetta fusione la lezione di Picasso […] 
						Ma al di sopra di questo arcaico e istintivo vigore in 
						cui si risolve una cultura composita e dispersiva, 
						Consoli ha una qualità che è profondamente sua, il dono 
						di un’ironia, per così dire, in punta di penna” [Gazzettino 
						di Sicilia, RAI, PA, 3.12.1954]. E aggiunge Mimì 
						Maria Lazzaro: “La pittura di Consoli, nata da un 
						espressionismo letterario, si è andata incanalando verso 
						forme fauviste e cubiste, prelevando inconsciamente da 
						esse quel minimo di forma esteriore che gli serve per 
						raccontare a noi le sue favole e i suoi sogni con il 
						linguaggio scoppiettante del tempo” [La Sicilia, 
						CT, 4.12.1954]. 
						
						Consoli si trasferisce a Milano nel 1959 e da allora la 
						sua ricerca si manifesta attraverso vari altri media 
						espressivi. Immagina innanzitutto delle strutture in 
						fibre metalliche (bellissima La capra) e poi 
						modella lamiere di ferro saldate (La danzatrice). 
						Da matasse tubolari di fertène policrome (un prodotto 
						della Montecatini) assembla particolari “accorpamenti” 
						che titola Ciclopi: consegue un vasto successo 
						alla Galleria “L’Indice” di via Santo Spirito. Seguirà 
						una fase “sociale” ripresa dalla cronaca violenta 
						(scippi, aggressioni, ecc.). Quando nel 1972 torna in 
						Lombardia, espone alla Galleria Pater di via Borgonuovo 
						(si ricorda: Gatto acciambellato, Ragazzo che gioca 
						con le nocciole), per la quale Carlo Munari dice in 
						catalogo: “Questo artista è vincolato alla Stimmung 
						della sua terra siciliana: a un fitto intrecciarsi di 
						solarità e di notturnità, di magnificenza barocca, e di 
						natura selvaggia, fascino di negre rocce vulcaniche e di 
						un mare ossessivamente azzurro […]. La figura del gatto 
						si propone come l’improvvisa apparizione di un animale 
						mitico, di un latore di messaggio arcano e insieme 
						enigmatico”.     
						
						L’ultima sorpresa Consoli la riserva nel 2000, con una 
						mostra di pure forme cromatiche, di immagini 
						fantastiche, che stando sulla soglia del conscio e 
						dell’onirico, scandagliano la freudiana categoria del 
						perturbante. Ma non si può chiudere il percorso 
						artistico di Consoli senza accennare all’attribuzione 
						che egli, come studioso, farà del palermitano affresco 
						del Trionfo della Morte  ex Sclafani in capo al 
						maestro digionese Guillaume Spicre, che venne dipinto 
						nel 1462.  
						NINO LEOTTI
						(Barcellona P.G. [ME] 1919 – Ivi 1993) è 
						un autodidatta che comincia a dipingere da ragazzo, ma 
						poi diventa ordinario di disegno e storia dell’arte nei 
						Licei Statali. Lascia la cittadina natale nel primo 
						dopoguerra, per trasferirsi dapprima a Milano e poi a 
						Roma. Rientra definitivamente a Barcellona nel 1959. 
						Durante il soggiorno a Milano raggiunge la Francia, 
						l’Olanda, il Belgio e la Danimarca. A Milano aderisce al 
						gruppo di “Corrente” e diventa amico di Peppino Migneco 
						e Beniamino Joppolo. A Roma frequenta Mazzullo, Guttuso, 
						Purificato, Zavattini e Stefano D’Arrigo. 
						A Messina fa parte degli artisti e letterati del 
						“Fondaco”, presso l’OSPE di Antonio Saitta, e perciò 
						frequenta  S.Pugliatti, S.Quasimodo, Nino Pino Balotta, 
						Vann’Antò ed altri. E’a lui che viene l’idea di 
						allargare questo sodalizio anche alla gastronomia e 
						diventa così il cuoco “ufficiale” del “Fondaco” (la sua 
						specialità era la ghiotta di stoccafisso). 
						Espone la prima volta nel 1947 a 
						Barcellona (ebbe come maestro un incisore palermitano 
						vissuto negli USA, Vittorio Drago). Numerosissime la 
						mostre personali e collettive. All’estero ha tenuto 
						personali ad Amburgo, Zurigo, Copenaghen, Amsterdam. Ha 
						partecipato alla Quadriennale di Roma del 1951/52. 
						Afferma Michele Spadaro [Catalogo, 
						Mostra a Patti, dic. 2002] che è da sottolineare nella 
						sua pittura “l’uso del colore, personale, creativo, 
						carnalmente acceso; l’ironia del racconto, motivata da 
						una sottile critica all’ambiente provinciale; l’aspetto 
						umano, estrinsecato emotivamente anche attraverso la 
						ricerca di tratti caricaturali; il realismo figurativo, 
						frutto di interpretazione interiorizzata del mondo”. Del 
						pari Elio Anastasio [Catalogo, Mostra a 
						Castroreale, luglio 2001] dice che il “suo figurativismo 
						è un figurativo soggettivo, nel senso che i suoi 
						soggetti non sono mai presi dal vero. Leotti non dipinge 
						ciò che vede, bensì ciò che sente”. 
						E’ stato spesso sottolineato che 
						l’espressionismo di Leotti è affine a quello di Migneco, 
						con il quale si accompagnò sempre. Tale affinità è 
						evidente negli sfondi delle tele, che sono “variegati” 
						come quelli mignechiani (muri a secco, ciottoli, foglie, 
						cactus, ecc.). Ma mentre in Migneco c’è una maggiore 
						varietà tematica (famoso, ed emblematico, il “ragazzo 
						accoccolato” che fa i propri bisogni), in Leotti 
						l’umanità rappresentata è più “localistica” (è tipico il 
						suo ombrello rotto, trovato abbandonato in una spiaggia 
						e “ridiventato vivo, perché gli aveva dato un’anima”). 
						In ogni caso, come afferma egli stesso nell’intervista 
						rilasciata a Sergio Palumbo [RAI/2, aprile 1990], lo 
						“scambio fu reciproco: io subivo il suo influsso dal 
						punto di vista grafico, lui invece lo subiva dal punto 
						di vista cromatico”.  
						 
						RENZO COLLURA 
						(Grotte [AG] 1920 – 
						Palermo 1989) fu il prestigioso direttore della Galleria 
						d’Arte Moderna di Palermo dal 1959 al 1977 (ubicata dal 
						1910 al 2006 presso il Teatro Politeama). Compie i primi 
						studi artistici a Torino, ma in séguito alle vicende 
						belliche opererà in un primo tempo in Grecia e poi in 
						Albania, dove per la conoscenza dell’arte classica e 
						bizantina sarà incaricato dal Ministero per la Cultura 
						popolare a organizzare e dirigere corsi di avviamento 
						artistico. 
						
						Per rigore etico farà conoscere le opere della sua 
						attività di pittore solo dopo il suo collocamento a 
						riposo. Da allora terrà mostre a Palermo, a Padova, Roma 
						e in altre città. Nel 1999 il Comune  di Grotte gli ha 
						dedicato una grande retrospettiva. Quello che 
						caratterizza l’arte di Collura è la componente 
						fantastica, che gli fa assemblare elementi monumentali e 
						paesaggistici in composizioni con grandi linee curve e 
						spazi delimitati ma allusivi. Inoltre la sua tavolozza 
						usa accostamenti insoliti, come il nero che a volte 
						marca in maniera aggressiva le composizioni. 
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						 6.  
						Artisti nati fra il 1921 e il 
						1930  | 
					 
					
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						 MARIO BARDI 
						(Palermo 1922 – 
						Milano 1998) ha dapprima insegnato materie artistiche ad 
						Aosta nel 1951, poi ha vissuto a Torino e infine, dal 
						1958, a Milano. Qui, frequentando le personalità più 
						rappresentative in campo artistico e critico, ha poi 
						vissuto e si è affermato (rimase famoso il suo spazio “Aleph”, 
						sorto nel 1982, in un cortile di Corso Garibaldi). Ha 
						esposto in varie gallerie italiane e qualcuna anche 
						all’estero (Helsinki, Polonia, Berlino). Il suo periodo 
						realistico fino agli anni Cinquanta risente della 
						lezione cèzanniana, mentre quello “esistenziale” degli 
						anni Sessanta è sottoposto alle sollecitazioni della 
						cronaca (Il mulo tra le macerie allude al 
						terremoto del Belice e Suez ’67 alla crisi 
						mondiale di quel momento ed è forse per questo che il 
						dipinto è risolto in tonalità di rosso).  
						
						Ma è con la “nuova figurazione” dagli anni Settanta in 
						avanti che Bardi trova la sua “sigla” più propria, che 
						può andare da citazioni di maestri del passato (es.: 
						Omaggio a Velasquez del 1974/77) a una rivisitazione 
						dei motivi dell’opulenza barocca e magniloquente della 
						“sua” Palermo, come Cardinali (1976) e Viceré 
						(1978), tutti dipinti caratterizzati dalla scomparsa del 
						volto delle figure. Bardi poi, nel 1980, si rifà all’allegorismo 
						di Guttuso e, in una grande composizione chiamata 
						Giardino, mette insieme vari personaggi della sua 
						epoca (c’è Marilin Monroe), se stesso (l’autoritratto in 
						primo piano) e, seduti sulla destra a un tavolino, 
						Guttuso e Sciascia. 
						SANTO MARINO 
						(Militello Val di 
						Catania [CT] 1922 – Ivi 1991) frequentò il liceo 
						artistico di Palermo, dove si diplomò nel 1947. Qui ebbe 
						modo di conoscere i pittori che gravitavano intorno alla 
						cerchia di “Corrente” e da allora l’aspetto sociale e 
						l’impegno politico non abbandoneranno mai la sua 
						pittura, che d’altra parte trova nel mondo contadino del 
						suo paese la fonte principale d’ispirazione. Nel 1959 
						partecipa a Vienna alla mostra internazionale della 
						“Giovane pittura italiana” e nel 1964, su invito del 
						governo della Germania Orientale di allora, terrà una 
						personale di disegni a Berlino e di altre opere a 
						Dresda. Anche l’anno successivo partecipa a una mostra 
						internazionale di grafica a Lipsia. La Germania, insieme 
						con la Polonia, conserva molte sue opere. 
						
						Marino in vita ebbe contatti con l’intellighenzia 
						di sinistra e non tradì il suo mai sottaciuto scopo di 
						“trasformare”, e perciò di lottare contro le condizioni 
						sociali oppressive delle classi più umili e diseredate. 
						Fece scalpore la sua tragica fine: travolto da un treno 
						per disattenzione, mentre camminava sulla linea ferrata. 
						
						Fin dall’inizio la sua pittura fu definita come 
						“espressionismo mediterraneo”, per l’alterazione delle 
						forme e i violenti accostamenti di colore. Forse oggi, a 
						distanza di tempo, certa sua tematica appare troppo 
						gravata con le lotte per il “riscatto” dei suoi 
						contadini. E’ però fuor di dubbio che il rispecchiamento 
						che egli ha fatto di una determinata realtà di Militello 
						sia icasticamente rappresentativo di un clima e di 
						un’epoca. Il suo paese natale, giustamente, gli ha 
						dedicato una sala permanente nel Museo Civico. 
						PIPPO BONANNO
						(Palermo 1925) 
						è un autodidatta che ha iniziato a disegnare molto 
						presto e, inizialmente, farà vignette per i giornali 
						satirici (“Il becco giallo”, ecc.). Nel 1947 inizia la 
						carriera di insegnante a Moncalvo Monferrato. A Torino 
						guarderà a Casorati e a Spazzapan, ma poi resta 
						folgorato da Picasso. La prima personale avverrà a 
						Palermo nel 1958 alla Galleria Flaccovio. Espone poi a 
						Milano nel 1960 e, successivamente, farà il suo percorso 
						in Italia e all’estero. Intensità del colore, 
						deformazione espressionistica e partecipazione emotiva 
						sono gli elementi intorno a cui si struttura la pittura 
						di Bonanno che, anche se inizialmente trova pause più 
						liriche, si caratterizza sempre più attraverso il 
						grottesco.  
						
						La sua tematica passerà così da vari cicli: “i 
						generali”, “i cardinali”, “le memorie barocche”. 
						L’obiettivo resta sempre lo stesso: demistificare il 
						potere incarnato e la superstizione che avvolge le 
						menti. Se si prendono i “generali”, sembra quasi di 
						assistere a una combinazione di vari maestri: il 
						grottesco di George Grosz, l’allucinazione dei derelitti 
						di Lorenzo Viani e l’esteriorità in divisa e con le 
						medaglie di Enrico Baj. Come dirà egli stesso in una 
						dichiarazione del 2005, la sua pittura ha per tema “gli 
						emblemi assurdi del degrado politico e morale”. Ciò 
						peraltro non significa che Bonanno non faccia poi 
						“sosta” su momenti più pacati e di più rasserenante 
						“memoria”, come quando ripercorre il “mito” di Racalmuto, 
						dove aveva origine la sua famiglia. Negli ultimi tempi 
						la pittura di Bonanno, a parte la rivisitazione della 
						tradizione religiosa, sfocia in una sorta di in 
						formalismo, che sembra richiamare motivi vegetali e 
						naturali. 
						BRUNO CARUSO 
						(Palermo 1927) 
						incominciò a disegnare sotto la guida del padre 
						ingegnere, dall’età di cinque anni (copiando opere di 
						Leonardo, Pisanello e Mantegna). Frequentò il liceo 
						classico e si laureò anche in giurisprudenza, anche se 
						poi fece dei corsi liberi all’Accademia di Belle Arti. 
						Vive e lavora a Roma dal 1959. 
						
						Caruso ha molto viaggiato: nel 1947 a Praga, a Monaco e 
						a Vienna (eseguirà un ciclo di disegni ispirati a Gorge 
						Grosz, dal titolo Deutschland uber alles, 
						riproduzioni delle opere di Klimt e Schiele, e studierà 
						in particolare Espressionismo e Secessione Viennese).Tra 
						il 1945 e il 1950 è a Parigi e a Londra e si fermerà per 
						molto tempo a Milano, diventando amico di Vittorini e 
						Quasimodo. Ma è in Sicilia che, diventato amico di 
						Girolamo Li Causi e di Leonardo Sciascia, si eserciterà 
						sempre più nella denuncia delle condizioni sociali del 
						mondo contadino e nella lotta contro la mafia (ved. 
						L’occupazione delle terre incolte e Portella 
						della Ginestra). Negli anni ’60 collabora anche con 
						“L’Ora” di Palermo e s’impegna nella grafica per 
						l’editoria (non va dimenticato che Caruso è anche 
						scrittore, sia di libri sull’arte che non). E’ anche per 
						questo che, nella grande mostra palermitana del 1973 
						presso la Civica Galleria d’Arte Moderna, sono stati 
						presentati i vari scritti e i libri da lui illustrati. 
						
						La produzione di Caruso è sterminata, ma c’è una 
						caratteristica che contrassegna la sua opera: un segno 
						marcatissimo, spesso di genere grottesco alla Grosz, che 
						tecnicamente può variare dalla vera e propria grafite, 
						all’inchiostro di china o alle classiche acqueforti. E 
						anche quando affronta l’acquarello e i colori a olio, il 
						disegno in lui tende sempre a prevalere. Naturalmente, 
						la tematica della sue opere è prevalentemente ispirata 
						alla Sicilia, anche se spesso non sono i soggetti 
						“reali” a essere trattati, ma quelli reinventati 
						attraverso il filtro memoriale.  
						
						D’altra parte, ebbe a dire lui stesso: “La memoria di un 
						pittore è essenzialmente figurativa e la mia è 
						particolarmente esercitata a ricordare le immagini 
						(tanto che tutto quello che disegno o dipingo lo faccio 
						a memoria) e queste immagini si accavallano come in un 
						film […]. Ma sono pur sempre memorie di fatti e di 
						sequenze di fatti; eventi che poi un pittore è costretto 
						a sintetizzare in una sola immagine e mistificare o 
						nascondere in una metafora spesso sibillina o ambigua” [Motta-Caruso,
						Un’amicizia, Manduria, 1994]. E metafore, 
						sibilline o ambigue, sono spesso le sue immagini, come 
						quella del grande falcone che guarda, in un panorama 
						dello Stretto di Messina ripreso dalle crocifissioni di 
						Antonello, Leonardo Sciascia che avanza nudo su un 
						cavallo; oppure il grande ficus dell’Orto Botanico di 
						Palermo, dalle radici pendule, intriganti e aggressive, 
						che simboleggiano la “piovra” dell’Inquisizione 
						siciliana. 
						GIUSEPPE GAMBINO 
						(Vizzini [CT] 1928 - Preganziol [TV] 1997) fu un girovago perché il padre, 
						funzionario alle Belle Arti, veniva trasferito in varie 
						parti d’Italia. Cominciò a darsi all’arte fin dal 1944, 
						sull’Appennino modenese, che com’è noto fu sede di aspri 
						scontri fra tedeschi e partigiani. Fu giocoforza, 
						allora, comporre e seppellire i corpi dei caduti. Nel 
						1953 arriva a Bologna e si occupa di grafica 
						pubblicitaria insieme con Nino Caffè. Dal 1954, 
						spostandosi a Venezia, si dedicherà definitivamente alla 
						pittura.  
						
						Tenne la sua prima grande esposizione alla Fondazione 
						Bevilacqua La Masa e da allora venne consacrato come 
						“pittore veneto”. Seguirono esposizioni in Italia, negli 
						Usa e in Europa, fra cui Cordoba, dove trascorreva ogni 
						anno l’inverno. Dal 1963 acquistò e ristrutturò 
						un’abitazione colonica a Preganziol, dove poi si spense, 
						e perciò la mostra che si tenne a Treviso, sul tema 
						“Venezia”, è sotto un certo aspetto “dovuta” come 
						riconoscimento della sua terra d’elezione. 
						 
						
						La sigla più caratteristica dell’espressionismo di 
						Gambino è da vedere nelle facciate , nei palazzi e nelle 
						chiese veneziane, dipinte con forti contrasti di colori 
						e con una composizione figurativa piatta e schiacciata 
						contro il fondo, che però ricerca accordi e suggestioni 
						di tipo musicale. Esemplari, in quest’àmbito, Le 
						Procuratie vecchie del 1960 e La chiesa della 
						Salute del 1996. 
						MICHELE SPADARO 
						(Santa Teresa Riva 
						[ME] 1929 ) è un autodidatta (solo da ragazzo prese 
						lezioni di disegno “rappresentativo” da una pittrice). 
						Di lui ha detto Leonardo Sciascia: “Medico per necessità 
						di vita, pittore per elezione di natura”. 
						Sul suo luminismo ha 
						insistito Mario Monteverdi: “Spadaro ha inteso il colore 
						in funzione della luce, ossia ha superato le suggestioni 
						immediate fornite dal colore per servirsi di 
						quest’ultimo come di un mezzo per realizzare la luce. 
						[…] Sicilia non più e non tanto come folclore […] ma 
						come realtà lirica. […] La natura […] viene 
						interpretata: più precisamente nella sua poetica 
						essenza” [Catalogo, Galleria Angolare, MI, 1970]. 
						E aggiunge al riguardo Sergio Palumbo: “ Spadaro non ha 
						subito una dichiarata influenza delle avanguardie 
						storiche protonovecentesche, né di quel realismo sociale 
						del secondo dopoguerra così fortemente sentito, invece, 
						da pittori siciliani che hanno fatto scuola come Guttuso 
						e Migneco. Una ideale ascendenza si può, semmai, 
						riscontrare nell’opera di macchiaioli e chiaristi, ma 
						Spadaro guarda al paesaggio siciliano con sensibilità 
						moderna. […] Pure là dove questa sua Sicilia, difatti, 
						sembra apparentemente fuori del tempo, arcaica e rurale, 
						inanimata per l’assenza o quasi di umanità, c’è a monte 
						l’idea di un totale rifiuto della realtà industriale e 
						consumistica. […] Quella che egli mostra è in sostanza 
						l’immagine cristallizzata di un mondo più sognato che 
						vero, ci si trova allora dinanzi a una dimensione più 
						simbolica che realistica” [Catalogo, Mostra 
						Comune di Milazzo, 1993]. 
						
						Anche Lucio Barbera sintetizza in questi termini la sua 
						visione pittorica: “Spadaro è di sua natura un artista 
						lirico e, sotto il profilo formale se si vuole, un 
						‘chiarista siciliano’, che è cosa ben diversa dal 
						chiarismo che ebbe fortuna in Lombardia intorno al 1929 
						con artisti quali Del Bon, De Rocchi e Lilloni. La 
						liricità di Spadaro si impianta in una ossessiva e 
						dolcissima visione di una Sicilia del tutto diversa da 
						quella di artisti quali Guttuso o Migneco. […] Spadaro 
						piuttosto guarda ai grandi 
						
						spazi, a quelle sensazioni omeriche di classica 
						compostezza, a un ordine possibile della natura non 
						scempiata dall’inquinante presenza umana, a quel tempo 
						più alto dell’orologio […] che governa le stagioni. C’è 
						nella sua pittura questo respiro quasi epico che punta 
						alla bellezza non contaminata,non alle cose ma alla loro 
						resistenza” [Gazzetta del Sud, 29.1.1993].  
						  
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						 7.Artisti nati dal 1931 in 
						avanti  | 
					 
					
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						 ERNESTO LOMBARDO 
						(Tripi [ME] 1934) si 
						è diplomato all’Istituto Statale d’Arte di Palermo. Fa 
						le prime esperienze artistiche a Messina, ma verso la 
						fine degli anni Sessanta si trasferisce dapprima a 
						Milano e poi ad Albissola. In séguito va a vivere a 
						Roma. Numerose le mostre personali e collettive in 
						Italia e all’estero. La pittura di Lombardo si inscrive 
						in una decisa linea fantastico-visionaria, come ha 
						sempre messo in rilievo la critica. Renzo Margonari 
						precisa che la sua visionarietà “si costruisce senza 
						deviare dal dato reale di base. Non siamo […] nel campo 
						della fantasticheria, nella sua variazione di ‘capriccio’, 
						ma piuttosto nel campo del visionario, detto in senso 
						goyesco”. Pippo Consoli parla di “estasi metafisica, la 
						quale costituisce in atto la sigla essenziale dell’opera 
						di Lombardo […]. Il suo discorso si svolge nella 
						rappresentazione inquietante quanto plausibile di 
						sibilline metafore. […] Lombardo assume la difesa 
						del culto romantico della natura che la moderna civiltà 
						degrada”. 
						
						Paolo Miccoli afferma che “la costante della pittura di 
						questo artista è data essenzialmente dalla visione 
						simultanea di natura e storia. La natura prende corpo 
						nel fascino del mare, dei monti, degli alberi, del cielo 
						e dei prati, mentre la storia palesa i suoi documenti o 
						‘frammenti del passato’ in statue dimezzate, in reperti 
						archeologici, in attestati plastici della mitologia 
						pagana. La cifra dell’arcaico […] è anche lezione di 
						richiamo alla saggezza del passato ideale, dove 
						l’armonia della natura non era messa in crisi 
						dall’operato dell’uomo tecnologico odierno”. Renato 
						Civello aggiunge: “Il dato naturalistico (grande 
						carrubo, roccia, stoppie riarse, collina o ansa di mare) 
						è investito di un misterioso respiro. La metafisica è in 
						agguato, ma senza la rarefatta idealità dell’invenzione 
						dechirichiana”. 
						
						Emilio Sidoti [sulla rivista Liguria, n° 4, aprile 
						1992] afferma: “Gli ultimi dipinti […] sembrano 
						variazioni di un medesimo tema scandito in tre momenti 
						fortemente metaforici: il verde residuo, la landa 
						desolata ed il mare lontano. […] In essi domina il 
						vuoto, incombe l’assenza, il silenzio. […] Lombardo non 
						dipinge paesaggi, ma dà corpo a pensieri, riflessioni, 
						stati d’animo: le sue sono visioni e non paesaggi. […] 
						Il suo è un romanticismo senza illusioni, aprés le 
						dèluge”. Claudio Strinati dice che “le sue opere 
						sono contemplazioni immobili di luoghi che non esistono, 
						ricostruiti da una personale ‘arte della memoria’. Tutti 
						gli elementi che compongono quei luoghi sono reperibili 
						nella realtà della natia Sicilia ma niente viene 
						rappresentato dal vivo. […] Tutto si cristallizza 
						davanti ai suoi occhi nelle forme di un eterno 
						presente”. Mario Lunetta [sulla rivista Roma, 
						1993] vede “nel sogno della Sicilia archetipica di 
						Lombardo […] un teatro di finzioni di secondo grado, un 
						metateatro. […] E quest’invenzione desublimatoria e 
						lievemente sarcastica […] rimescola con solenne capacità 
						di sospensione e di inquietudine contemporanea 
						suggestioni ‘metafisiche’ e ‘surrealiste’, dentro una 
						zona di immobile ciclone barocco”. 
						
						Maria Augusta Baitello infine scrive: “Il mito, la 
						storia, la favola fanno parte […] della cultura di 
						Lombardo. […] Paesaggi a volte disabitati e a volte 
						popolati da insoliti ed arcani protagonisti: personaggi 
						mitici, animali, sfingi, statue. […] Figure e spazi 
						sospesi a metà, collocati sulla soglia di un 
						oltre-realtà capace di coniugare il dato irreale con 
						quello reale. […] In un tempo teso all’infinito e per 
						questo ultramondano, in grado però di ospitare i miti di 
						ieri rivisitati dalle necessità dell’oggi”. 
						PIPPO GAMBINO 
						(Porto Empedocle [AG] 1935 – Palermo 2004) si 
						trasferisce con la famiglia a Palermo già a quattro 
						mesi  e – predestinazione ? – in una casa le cui 
						finestre aggettano sull’Accademia di Belle Arti. In 
						effetti Gambino frequenta il Liceo artistico e, nel 
						1952, si iscrive all’Accademia, dove verrà assunto come 
						assistente nel 1955. Poi nel 1960 vince il concorso per 
						la cattedra di “Incisione”, le cui tecniche eserciterà 
						per tutta la vita con risultati importanti (e 
						innovatori, come la stampa su papiro e quella su 
						sughero). Per Gambino bisogna perciò usare sempre la 
						doppia denominazione pittore-incisore. 
						
						Peraltro, la carriera artistica si affianca sempre a 
						quella di insegnante: diventa direttore dell’Accademia 
						di Palermo nel 1978, ma insegnerà anche a Bari (1977) e 
						inviato come commissario all’Aquila (1984). Sarà 
						incaricato dal Ministero a integrare gli organici per 
						l’Accademia di Sassari (1988). Questa collaborazione 
						“ministeriale” culminerà nel conferimento della medaglia 
						d’oro per meriti culturali da parte del presidente 
						Cossiga (1990). E quando nel 1982 si trasferisce a Roma, 
						assumerà la cattedra all’Accademia “libera” di Ripetta 
						(e vivrà in una soffitta-laboratorio sita in un ex 
						convento, a Trastevere).    
						 Pippo 
						Gambino, già nel 1953, compie viaggi di studio in Europa 
						(Parigi, Salisburgo, Saarbrucken, Monaco) e, via via, 
						espone spesso all’estero (Stuttgard, Mosca, 
						S.Pietroburgo, Kiev, Talvin, Londra, Berlino, Città del 
						Messico, Ankara e Smirne, New York). In Italia, a parte 
						le mostre in varie città (e i premi assegnatigli), 
						espone alla Quadriennale di Roma nel 1960 e nel 1986.  
						
						Leonardo Sciascia, che come si sa era un “amatore di 
						stampe”, loderà nel 1966 la sua “volontà di fare 
						l’acquaforte, di esprimersi compiutamente nei limiti e 
						nell’identità del mezzo che si è scelto”. Ma già Renato 
						Guttuso, nel 1964, descriveva la sua arte in questi 
						termini: “La sua pittura è fatta di caratterizzazioni di 
						tipo espressionista: il sentimento della sofferenza si 
						esprime attraverso la deformazione dei volti, del 
						paesaggio. Bisogna però osservare che la ‘deformazione’ 
						espressionistica non è in Gambino qualcosa di 
						volontario, di sovrapposto all’immagine normale, ma 
						connaturata ad essa: il paesaggio, ad esempio, subisce 
						le stesse deformazioni di un volto. Il tema di Gambino è 
						il dolore: delle case, mura, tetti, imposte, alberi, 
						radici, volti”.  
						
						Di neo-espressionismo parla il critico Franco Grasso (L’Ora, 
						PA, 1.11.1972) e Aldo Gerbino, in un bell’articolo del 
						2004 (Prometheus, PA, n° 81) usa per le sue 
						figure l’espressione dismorfia cinematica dei corpi. 
						 Mai come in Pippo Gambino torna d’attualità quello che 
						diceva G.C.Argan: “Il brutto non è altro che un
						bello caduto e degradato. […] Soltanto l’arte 
						potrà compiere il miracolo di riconvertire in bello 
						quello che la società ha pervertito in brutto” 
						[in L’arte moderna, citato]. Spesso infatti le 
						figure di Pippo Gambino sono la quintessenza della 
						“bruttezza” e di una ricercata e guttusianamente 
						“dolorante” umanità. Figure di frequente collocate 
						contro uno sfondo di macerie  e di ruderi (si possono 
						prendere, emblematicamente, gli stessi titoli di certe 
						sue incisioni: Viscere (1950), Sventramenti 
						(1954), Cortile Cascino (1953), come se Palermo 
						non potesse che mettere in mostra i suoi “segreti” 
						innominabili. C’è poi nei suoi paesaggi una ritornante 
						impostazione a fasce orizzontali, bi o più spesso 
						tripartite: dove, nel primo o più di frequente ultimo 
						piano, campeggia un grosso mammellone roccioso che 
						sembra richiamare vagamente i paesaggi australiani, le 
						tipiche Hanging o Ayers Rocks. 
						 
						NINO 
						CANNISTRACI (Roccavaldina 
						[ME] 1935) insegna progettazione e costume in una Scuola 
						d’Arte della sua città . Oltre alle mostre in Sicilia, 
						ha esposto a Innsbruck nel 2001 e ad Ankara nel 2005. 
						Il critico che quasi a ripetizione 
						si è occupato di Cannistraci è Guido Giuffré, che già 
						nel 1973 affermava: “La natura dell’artista siciliano, 
						contrastante con la mitezza del suo carattere, è intrisa 
						di un senso drammatico del mondo, radicale e senza 
						compensi […].E’ una drammaticità giuocata su accensioni 
						formali di tipo espressionistico, ma non vangoghiano 
						[…], quanto piuttosto espressionismo ancora giudicante, 
						nel quale una vena di psicologismo visionario 
						centroeuropeo scorre sotto l’irruenza mediterranea. E’ 
						una drammaticità, inoltre, il cui senso panico non si 
						traduce mai in esiti di action painting o 
						variamente gestuale, ma sempre si avvale di una 
						plasticità della forma. […] Se si analizzano le 
						confluenze nell’arco della pittura contemporanea ecco, 
						coerentemente, Sutherland  e Bacon come Picasso. Ma ecco 
						soprattutto il volto autonomo […] di una pittura che non 
						si nutre di prestiti ma di un clima problematico”. E nel 
						1977 precisava: “Intanto il colore non offre la vivacità 
						che ci si aspetterebbe da un meridionale. E’ colore 
						sottile, filtratissimo […]. Eppure è colore caldo […], 
						dissolto negli spazi protagonisti […]. Spazi senza suoni 
						dove una forma  può disfarsi come capriccio di nuvola”: 
						E nel 1986 aggiungeva infine: “Sui contenuti poetici non 
						sono intervenuti novità di rilievo; l’artista tenta, 
						tormenta, scava negli aspetti di una dimensione 
						culturale tanto universale […] quanto puntualmente 
						siciliana, che in letteratura, da Pirandello a D’Arrigo, 
						ha immediati riscontri; e nell’arte figurativa […] una 
						visionarietà spinta alla disperata o cupa follia, 
						abissale solitudine, suggestiva confidenza col mito”. 
						Anche Lucio Barbera [Il mito 
						quotidiano, in Nino Cannistraci, opere, Gall. 
						D’Arte L’Airone, ME, dic. 1990] ricalca tali giudizi e 
						sottolinea che “la carica fantastica, che lo conduce sia 
						alla deformazione della realtà, che alla affermazione di 
						impossibili coesistenze allegoriche […], non spinge mai 
						la sua pittura sul terreno della surrealtà”. Mentre 
						Elvira Natoli (1986) mette l’accento sull’aspetto 
						polisemicamente simbolico della sua pittura: “Una 
						figurazione costruita in addensarsi drammatico della 
						stesura cromatica indaga mitiche forme, registra 
						affiorare di pensieri intorno ai misteriosi e ambigui 
						meccanismi del reale (donna, specchio, babuino, 
						sparviero), simboli arcani, minacciose presenze”. 
						Ma chi più di tutti ha messo in 
						evidenza la natura simbolico-archetipica, alla Jung, 
						della sua pittura è lo stesso pittore, che in un’autodichiarazione 
						del 1974 afferma: “Faccio una pittura che si potrebbe 
						anche definire tradizionale, se non fosse per 
						l’esecuzione tecnica che è essenzialmente 
						espressionistica […]. Nei miei quadri si possono trovare 
						belve e crocifissi, nudi femminili e babuini, avvoltoi, 
						presenze insomma del mondo naturale, spesso zoologico, e 
						simboli di altra natura attinenti al mondo spirituale. 
						L’associazione di questi elementi non è mai programmata, 
						ma nasce sempre da una sorta di evocazione spontanea per 
						antitesi fra Eros e Thanatos. […] Queste forme naturali 
						diventano così, attraverso i processi autoanalitici, 
						archetipi dell’inconscio. […] L’arte non esprime mai il 
						proprio rapporto col mondo e con la storia in forma 
						diretta, ma sempre attraverso metafore, che è proprio 
						quello che io cerco di fare”. 
						GIGI 
						MARTORELLI (Palermo 1936) frequenta dapprima il 
						Nautico e poi il Liceo Artistico. Si iscrive 
						all’Accademia B.A. ed è attratto da Pippo Rizzo. Nel 
						1957 va a Milano e viene accolto da Peppino Migneco. Si 
						diploma all’Accademia nel 1959 e, tramite Giorgio 
						Carpintieri, ottiene una committenza per la decorazione 
						di negozi. Dal 1962, e per otto anni, insegna al Liceo 
						Artistico di Palermo. Nel 1970 lascia l’insegnamento e 
						si trasferisce a Roma. Ma nel 1980 decide di esiliarsi a 
						Capo d’Orlando per avere un contatto più diretto con la 
						natura e col mare (vive con una merla indiana, di nome “Ciccina”). 
						Fa la prima personale nel 1962 alla 
						Galleria Flaccovio di Palermo. Da allora espone in varie 
						gallerie, prevalentemente siciliane (all’estero a 
						Maracaibo nel 1959 e a Caracas nel 1972). 
						Afferma Anna Maria Ruta [in Gigi 
						Martorelli, Sellerio, PA, 1991]: “Sul finire degli 
						anni Cinquanta la pittura di Martorelli si articola tra 
						un ‘astrattismo inquieto’ […] che ammicca a Kandinskij e 
						varie coloratissime Forme (sagome di paesaggi 
						urbani ed extraurbani, ma anche gli oggetti e gli 
						elementi di una natura morta, […] come tenaglie, pinze, 
						barattoli, contenitori, tubi di colore, pesci, limoni, 
						ecc.), che rivelano la tensione verso una ricerca che è 
						prevalentemente formale e cromatica”. Verso gli anni 
						Sessanta inaugura la stagione dell’Informale (da Vedova 
						ad Hartung, da Fautrier a Pollock), ma ben presto 
						“approda – continua la Ruta – a un suo particolare 
						neo-figurativismo (che richiama anche il suo amatissimo 
						Bosch) e più tardi il recupero della realtà si 
						stabilizza in forme assai personali, attraverso 
						l’incidenza della luce su forme emblematiche”. Il suo 
						sperimentalismo adotterà anche l’uso della sabbia 
						mescolata ai colori, in particolarissime tecniche 
						miste. 
						Eva Di Stefano sostiene [in A 
						lemon is a lemon is a lemon, Ibidem] che “i tre 
						principali moduli compositivi che ricorrono nei trent’anni 
						di pittura di Martorelli, lo spacco, l’orizzonte e 
						l’ingranaggio, sono combinati insieme nel Racconto 
						della terra e della luna spezzata (1984)”. Per lo 
						spacco è emblematica l’opera Avventura del limone 
						(1974), dove la ripetizione seriale del frutto è – come 
						afferma lo stesso Martorelli – ‘una forma che vive di se 
						stessa’ e diventa perciò “una dichiarazione di poetica 
						per un pittore a briglia sciolta che in tutto il suo 
						lavoro ha alternato con spregiudicata naturalezza 
						immagini figurative e astratte”. Per l’ingranaggio, in 
						“quell’aggrovigliarsi di oggetti, tubi, rottami, 
						recipienti, sassi, detriti, membra disarticolate, 
						riconosciamo una sorta di moderno inferno alla Bosch, un 
						mondo di mutilazioni metalliche, di deriva tecnologica 
						[…], che […] è anche semplicemente […] un incubo 
						dell’anima, un cattivo sogno”. Per l’orizzonte, infine, 
						“credo che alla passione degli artisti siciliani per la 
						linea dell’orizzonte (si pensi a Guccione) non sia 
						estranea nel fondo una drammaturgia dell’insularità 
						ovvero del limite”. 
						Vincenzo Consolo [in La risacca 
						di Gigi Martorelli, Ibidem] scrive: “Cosa 
						vuole raggiungere, cosa vuole riconquistare Martorelli a 
						Capo d’Orlando? Non certo la natura. Non è così ingenuo 
						il pittore, da credere che la natura possa ancora essere 
						rappresentata, sia pure come nostalgia, come utopia. Noi 
						crediamo che da Capo d’Orlando egli abbia voluto 
						ripartire proprio per registrare, per dipingere l’agonia 
						di essa, la sua fine. […] D’altre risacche vuole dirci 
						il pittore, d’altri detriti. Forse della nostra anima, 
						della nostra epoca, della condizione umana”.  
						Franco Grasso [in L’Ora, PA, 
						12.4.1974] afferma: “Per spiegare la ‘pittura ecologica’ 
						di Gigi Martorelli non è difficile rinvenire […] i 
						riferimenti al paesaggio siciliano, ma con una 
						ribellione costante al piacevole e al caratteristico, al 
						cliché della Sicilia felice come agli schemi veristici e 
						sociali. La chiave di tutto il fare dell’artista è da 
						ricercarsi in un rapporto di amore-odio – verso la 
						Sicilia, verso la natura, verso la società, verso il 
						mondo intero -, che si è andato con gli anni esasperando 
						sino a spingersi talora ai limiti della furia 
						iconoclasta, del satanismo distruttivo”.Anche se Eduardo 
						Rebulla [in L’Ora, PA, 12.3.1975] attenua questa 
						negatività affermando che “alla coscienza di una natura 
						inabitabile come riflesso dilatato del proprio stato di 
						alienazione e costrizione, fa séguito la coscienza che 
						forse in fondo anche ‘la morte muore’ e che nella 
						sconfitta è possibile rinvenire valori e princìpi”. 
						Sergio Troisi [in Giornale di Sicilia, PA, 
						6.12.1986] sostiene: “E’ una pittura che procede per 
						allusioni, quella di Gigi Martorelli, […] dove lo 
						spostamento dal reale al visionario percorre così in 
						bilico il filo dell’intensificazione allucinatoria – e 
						mentalmente riepilogata - della visione”. Infine 
						Giovanni Bonanno [in Cooperazione 2000, anno IV, 
						n° 1, PA, gen. 1989] parla di “ iconismo di aniconie, 
						di immagini viste nella mente o intraviste in lembi di 
						paesaggi che l’immaginazione carica di valenze ‘altre’. 
						[…] La vibratilità segnica e cromatica di una pittura 
						mentale […] è segno di un lirismo che trova memoria in 
						Klee e Kandinskij e che si esplicita, all’interno della 
						strutturalità cubista, con una semantica concettuale e 
						barocca”.   
						TOGO 
						(Enzo Migneco - 
						Milano 1937) è nato nella capitale lombarda solo “per 
						avventura” (perché il padre vi si trasferì per un certo 
						periodo a causa del lavoro). Ma la sua formazione e la 
						sua esperienza di vita è tipicamente messinese (da 
						quando decise di dedicarsi all’arte prese un soprannome 
						per distinguersi dallo zio paterno, pittore 
						famosissimo). Consegue il diploma dell’Istituto 
						Superiore d’Arte di Palermo e fa la prima esposizione 
						proprio a Messina nel 1961, insieme con un amico 
						pittore. Si ritrasferisce definitivamente a Milano nel 
						1962. Abbinerà sempre alla pittura l’attività 
						d’insegnamento (da ultimo presso l’Associazione “Roberto 
						Boccafogli”, nell’àmbito di attività socializzanti). Non 
						si possono elencare le esposizioni, personali e 
						collettive, sia in Italia che all’estero (Polonia, New 
						York, Helsinki, Bruxelles, Germania). 
						
						Se è vero che gli inizi di Togo sono da ricercare nelle 
						esperienze del realismo (che egli, per così dire, 
						nutriva in casa), la sua pittura si contrassegna però 
						per un uso del colore di forte marca espressionistica. I 
						lavori esposti nel catalogo “Diarcon” a cura di Raffaele 
						De Grada, nel 1977, mostrano più un aspetto fauve, 
						ma poi l’impianto “geometrico” della forma si allenta in 
						quelli presentati nel 1981, all’Annunciata di Milano, 
						con presentazione di Paolo Volponi (né manca qualche 
						esempio che si richiama ai “vegetali” di Morlotti). Ma 
						le oscillazioni dialettiche, in Togo, rientrano nel suo 
						temperamento. In relazione a una mostra di grafica, dirà 
						Giorgio Seveso: “L’autobiografismo e l’autoanalisi sono 
						diventati ancora più incombenti, espliciti, decisivi. 
						Questo intenso viaggio all’interno del proprio volto 
						diviene il supporto per una riflessione in cui si 
						specchiano le tessere psicologiche di un presente fatto 
						di inaudite contraddizioni e di palpitanti speranze, di 
						coscienza e smarrimento, di contrastanti dati 
						esistenziali” [Catalogo, Spazio d’Arte, 1982]. E 
						sarà Paolo Bellini (1985) a individuare nel Volto 
						che dalle incisioni di Togo scruta “da fuori” la 
						composizione, più che una reminiscenza dei suoi stessi 
						autoritratti, un simbolo grafico della memoria 
						che rievoca, quella che assume il paesaggio raffigurato 
						in un silenzio atemporale. Intuizione ripresa e 
						sviluppata da Lucio Barbera (1991), che nel motivo del
						Volto affiorante in un’atmosfera mitica ritiene 
						“sfondata” la superficie del foglio e creata una nuova 
						spazialità.  
						
						Anche Tommaso Trini afferma che Togo dipinge “da tempo i 
						luoghi sconosciuti di un paesaggio […] le cui apparenze 
						piene di nicchie e di penombra altro non sono che 
						l’altra faccia dell’interiorità, che lui scandaglia con 
						una foga introversa alimentata dal colore. […] La sua è 
						in verità una pittura della psiche”. E concludeva poi: 
						“Pittore dei lunari labirinti dell’animo, Togo è 
						ambrosiano mediterraneo. […] Nei suoi Paesaggi 
						mediterranei agiscono altrettanto magneticamente 
						l’espressionismo nordico e la penombra” [Catalogo, 
						Galleria Bonaparte, MI, 1992]. I lavori più recenti di 
						Togo, secondo Rossana Bossaglia, stanno sul confine fra 
						figurativo e astratto. Ma c’è sempre una “figuratività” 
						recuperata attraverso la memoria nelle sue campiture 
						cromatiche. D’altra parte dirà egli stesso: “Matisse e 
						Picasso sono gli artisti con cui dialogo 
						quotidianamente, entrambi mediterranei e solari” (1996). 
						
						ALFREDO SANTORO
						(Messina 1939) insegna educazione artistica nella 
						città natale. Oltre alle esposizioni nelle varie 
						località isolane, c’è da registrare anche un’esibizione 
						a Kyoto nel 
						1989.                                           
						                                                                                                    
						Franco Solmi [in Catalogo, 
						La Palazzata – Libreria dello Stretto, Messina, 1987/88] 
						afferma: “Non v’è dubbio che le suggestioni 
						dell’espressionismo tedesco […] hanno avuto notevole 
						importanza per lo sviluppo ultimo del lavoro di Alfredo 
						Santoro. Mi sembra comunque che la sua immagine […] sia 
						proprio la negazione dell’urlo espressivo e della 
						esagitazione formale caratteristica della pittura dei 
						nipotini antichi e moderni della Brücke. Mi 
						sembra che anche Lucio Barbera, che si è occupato […] 
						del lavoro di Alfredo Santoro rivelandone i punti di 
						riferimento e gli antecedenti in Schmidt-Rottluf, Heckel, 
						Müller, Nolde e riscontrandone le tangenze coi moderni 
						portatori del ‘selvaggismo’ tedesco, abbia voluto 
						sottolineare l’uscita del pittore siciliano dall’area di 
						questi condizionamenti […]. Se dovessi fare il nome di 
						un artista i cui modi linguistici e le cui soluzioni 
						formali non hanno alcun riflesso nel lavoro di Santoro 
						ma con il quale il pittore siciliano rivela indefinibili 
						consonanze e affinità, ebbene farei il nome del Klee più 
						magicamente simbolico. […]  
						Se qualche anno fa queste 
						testimonianze e confessioni liriche s’affidavano a 
						contesti pittorici vagamente tenebrosi, a cupe 
						ossessioni, alle simbologie dei trionfi della morte e 
						della distruzione atomica, al romanticismo tragico e 
						allucinato di Baudelaire, nelle ultime opere s’avverte 
						come il fiorire di una nuova felicità, di un canto 
						d’infanzia che ricorda assai più il sognante 
						primitivismo di Klee che non i ruvidi goticismi dei 
						neoespressionisti di 
						Germania”.                                               
						 
						Caterina Giannetto afferma poi [in
						Giardini mediterranei, estasi del colore, Magika 
						Ed., ME, maggio 2004 ]: “Egli giunge a una 
						composizione di colore e non di forme o di figure, è 
						un’emozione coloristica, una ‘gioia di dipingere’ di 
						chiara ascendenza matissiana, un’esaltazione di giochi 
						cromatici, nutrita spesso di numerosi particolari 
						decorativi. […] Sono stralci di una natura non 
						fotografica, ma filtrata, non realistica, ma visionaria. 
						[…] Santoro avverte in parte anche il richiamo di Paul 
						Klee, del quale non sposa l’astrattismo, ma ne mutua 
						quel ‘canto d’infanzia’ tanto presente in tutta la sua 
						ultima produzione. E del menzionato esponente del 
						Blaue Reiter l’artista siciliano apprezza 
						soprattutto il potere evocativo del ricordo in grado di 
						disgregare, riunire e combinare le immagini secondo 
						nessi alogici e asintattici. […] Spesso le sue opere […] 
						creano un collage: antico amore di Santoro, 
						mutuato non solo dai cubisti ma anche dallo studio di 
						Robert Rauschenberg, sua altra fonte artistica di 
						riferimento”.       
						 
						TANO SANTORO 
						(Naso [ME] 1940) ha 
						avuto i primi rudimenti da un pittore locale, D’Ascola, 
						che gli permetteva d’affiancarlo en plein air. 
						Nell’àmbito del premio di pittura di Capo d’Orlando, 
						conobbe ed ebbe lezioni da Saro Mirabella e Armando 
						Pizzinato e soprattutto, per la grafica, da Tono 
						Zancanaro, che già Raffaele De Grada considerava come 
						“uno dei più straordinari inventori di forme che egli 
						avesse conosciuto” (1986). Dal 1962 si trasferisce a 
						Milano e farà un training pittorico e d’esperienza 
						presso la studio di Giuseppe Motti. Tiene la prima 
						personale a Piacenza nel 1967. 
						 
						Sempre Raffaele De Grada afferma (1980) che in Tano 
						Santoro “l’assoluto della forma ha sempre avuto la 
						tenerezza che ci tiene lontano dallo schema. Eppure il 
						suo lavoro è di studio, di atelier. Non conosco un altro 
						artista più lontano dall’improvvisazione”. Dario 
						Micacchi sostiene (1991) che in lui “il segno spesso 
						appare come la traccia del meteorite che ha colpito o ha 
						strisciato violentemente la forma”. Giorgio Seveso 
						aggiunge (1994): “Non è tanto la rappresentazione 
						riconoscibile di figure o forme reali ad interessarlo, 
						quanto piuttosto la definizione, attraverso l’autonoma 
						fascinazione del dipingere, delle vicende amplissime e 
						sempre diverse del rapporto tra la nostra sensibilità e 
						i materiali emozionali della pittura”. A sua volta 
						Nicola Miceli (2003) parla nella sua pittura di 
						“presenze […] portatrici d’una eroica determinazione a 
						durare almeno quali tracce o graffiti stenografici della 
						corporeità, nel loro precario consistere; bisogna 
						cogliere e assimilare la febbricitante fisiologia di 
						queste tessiture ora rade ora fitte della materia, nel 
						tentativo di contenerne la deriva verso l’indeterminato 
						nulla o tutto del cosmo”.      
						
						Sotto un certo 
						aspetto, Santoro è un incisore anche nella pittura. Non 
						soltanto perché in essa tende alla monocromaticità, o 
						comunque su una sensazione di fondo di un certo colore 
						poi assembla gli accordi degli altri che più si confanno 
						sul piano del pathos e su quello dell’armonia 
						compositiva, ma perché la mano “agisce” alla stessa 
						maniera: preso e compreso da quell’emozione scatenante, 
						fissa per linee, tratti, per segni le sue addizioni (materiche 
						persino), come sulla lastra incide segmenti con 
						veemenza. E se i suoi filamenti e le sue sbavature, a 
						volte persino “macchie” lanciate in successione, possono 
						in parte richiamare la tecnica dei divisionisti, è la 
						pittura gestaltica dell’Informale e dell’Espressionismo 
						astratto ad avvicinarsi maggiormente. Il suo 
						espressionismo segnico non è più rivolto a “narrare” 
						fatti, ma a “esprimere” emozioni. 
						GIUSEPPE BURGIO 
						(Caltanissetta 1941) 
						ebbe il suo primo contatto con la figurazione a sette 
						anni, quando incontrò il “madonnaro” Matteo Presti. Fa 
						gli studi al Liceo Artistico di Palermo e poi 
						all’Accademia di Belle arti di Roma. Per lungo tempo fa 
						la spola fra la sua città e Roma, ma dal 1978 si 
						trasferisce a Reggio Emilia. Dopo un lungo periodo di 
						assenza dalle esposizioni, riprende l’attività nel 1990, 
						con una mostra organizzata dal Comune di nascita, 
						presentata da Vincenzo Consolo. Da lì in avanti esporrà 
						in varie città. Burgio ha sempre sottolineato, nella sua 
						pittura, una nozione di sicilianità rievocata dalla 
						memoria. Ma di quale sicilianità si tratta? Già Giorgio 
						Segato (2002) parlava di “enfatizzazione e 
						intensificazione” del dato naturale. Infatti i famosi 
						ulivi di Burgio, i suoi paesaggi e le sue nature morte, 
						non s’appartengono al rispecchiamento -  effettuale, 
						avrebbe detto Leonardo Sciascia – di un dato reale 
						(anche quando la sua pittura viene accostata a Guttuso, 
						non c’è nulla del suo realismo, ma tutt’al più solo un 
						poco della vivacità fauve del suo colore), ma 
						sono immagini che riassumono le “caratteristiche 
						peculiari di un genere, di una specie”, sono cioè una 
						tipizzazione di una certa Sicilia.  
						
						Vagheggiamento e idealizzazione di una realtà scomparsa, 
						perduta per sempre, che “ritorna”, o almeno tenta, 
						attraverso il filtro memoriale, e in questo ritorno si 
						scorpora – può persino sembrare un paradosso – di ogni 
						peculiarità e particolarità dell’esistenza concreta. Si 
						tratta di una Sicilia pietrificata dalla sguardo di 
						Medusa, perché caricata di tratti ripetitivi e sempre 
						uguali a se stessi in quanto appunto solo mentali. 
						L’espressionismo cromatico di Burgio, che ha abbandonato 
						ogni sfumatura di tonalità a favore di accostamenti 
						sempre più timbrici e dissonanti, è proprio la 
						traduzione diretta di questa fissità astrattivamente 
						mentale. Dal tipo si passava così allo 
						stereotipo, che nasce “dall’uso rigido e 
						cristallizzato del quadro di riferimento” (U. Galimberti, 
						1991).  
						
						Per sfuggire alla variazione incontrollata, Burgio 
						passa, nella ultima fase della sua pittura, alla serie 
						dei rifiuti, cioé gli scarti e i residui delle 
						attività urbane e cittadine (anche gli 
						“sfasciacarrozze”, con i componenti meccanici e 
						metallici, accentuano vieppiù la lontananza 
						dall’ambiente naturale). Con un sottinteso polemico, la 
						sua denuncia ecologistica tende infatti a riaffermare 
						l’umano e a inverarlo in nuove costruzioni e rapporti 
						civili.    
						MIMMO GERMANA’ 
						(Catania 1944 – Busto 
						Arsizio [VA] 1992) fu un autodidatta e fu lanciato da 
						Achille Bonito Oliva nell’àmbito della Transavanguardia, 
						negli anni Ottanta, insieme con Cucchi, Chia, Clemente, 
						Paladino, De Maria. Morì di Aids a soli quarantott’anni. 
						La sua è una pittura di stampo popolaresco, “ingenuo” (o 
						falsamente tale), con forti accentuazioni simboliche. 
						Tale carica simbolico-fantastica l’ha fatto definire “lo 
						Chagall italiano”.   
						
						Il suo espressionismo mediterraneo e il suo primitivismo 
						gli valsero comunque una partecipazione alla Biennale di 
						Venezia nel 1980. La sua tematica prevalente concerne 
						figure femminili dal volto ovale, spesso fluttuanti 
						nello spazio, e paesaggi dagli alberi stilizzati che 
						contrastano col fondo. Di lui dice Francesco Gallo, 
						forse il suo maggior critico: “Una fantasia abbagliante, 
						colorata, rapida, di gialli, di rossi, di blu, quasi 
						disarticolati dalla rapidità d’impatto, con cui vengono 
						sbattuti sulla tela […] a conferma del fatto che la sua 
						gestualità è parte integrante di una personalità, di un 
						habitus e non della mancanza di regole d’arte. 
						 
						
						Quella di Germanà è, nonostante tutto, […] una sintassi 
						rigorosa della sua scelta espressionistica, della scelta 
						per la pittura d’impatto, che è la più adatta al suo 
						stile 
						
						onirico e trasognato, di una pittura […] in cui le 
						tonalità sono bandite e sembra debbano uscire le sagome 
						di Matisse e di Feininger, le pose femminili di Max 
						Pechstein, con il loro carico alcolico e sessuale, in 
						alcuni momenti anche la cromatica di Jawlensky, più che 
						quella dei suoi compagni di viaggio degli anni Ottanta, 
						Chia, Cucchi, Paladino, Clemente, De Maria”.    
						PIETRO 
						MANTILLA 
						(Messina 1949) si chiama all’anagrafe Mantineo e assunse 
						l’attuale nome d’arte quando, a ventitré anni, decise di 
						dedicarsi esclusivamente alla pittura, derivandolo dalla 
						mantellina che portava da bambino (ma nell’autoritratto 
						del 1982 usato come copertina del catalogo edito da 
						Magika nel 2005, in cui il volto si staglia contro il 
						fondo scuro, la mantellina lo fa assomigliare a un 
						caballero spagnolo del Seicento). In tale catalogo 
						Katia Giannetto lo descrive così: “Capelli ricci rosso 
						corvino, corporatura robusta, mani nodose”. 
						Sempre Katia Giannetto parla per la 
						sua pittura di “involgimento, processo opposto allo 
						svolgimento”, in quanto egli “liberamente ‘involge’, 
						cioé non esplicita, ma implicita un tema, un’idea sulla 
						tela”. E l’osservazione, più che una battuta, ha una sua 
						pregnanza in campo psicologico.”Mantilla - prosegue la 
						Giannetto - è attratto anche dai Preraffaelliti, 
						soprattutto da Dante Gabriel Rossetti, e questa ricerca 
						di semplicità e di spontaneità si coniuga […] con la 
						menzionata poetica naïf, lambendo sentieri cari a 
						Henry Rousseau il Doganiere. […] La lettura delle sue 
						immagini - tuttavia - provoca smarrimento, disagio, 
						dubbi, a volte scandalo e repulsione”. Sostiene poi la 
						Giannetto che “il disegno è l’emblema di tutta la vena 
						creativa di Mantilla, il quale adotta, come per i 
						quadri, una tecnica mista che si avvale non solo del 
						gessetto, ma anche del lapis, dei pastelli, della 
						tempera”. Così “la deformazione di oggetti, membra, 
						muscoli, corpi umani, si concretizza sulla tela in 
						composizioni difficili da leggere con parametri 
						meramente figurativi. […] Mantilla risente, più o meno 
						inconsciamente, di Pablo Picasso. […] Singolari affinità 
						di contenuti e di forme si rilevano anche fra Mantilla e 
						Francis Bacon, ambedue presentano la stessa visione 
						sofferta e angosciata dell’uomo, gli stessi corpi 
						deformati, quali frutti degenerati della società 
						contemporanea”.      
						Giorgio Seveso [in Catalogo, 
						Gall. Ciovasso, MI, giugno 2000] afferma che si tratta 
						di “un artista che, apparentemente, non ha in pittura 
						proprio nulla di siciliano. […] La sicilianità di 
						Mantilla si allarga, infatti, per il tramite di una 
						intensa sobrietà meditativa, a uno spleen più 
						universale, fatto di malinconia umana che non ha confini 
						di province o regioni. C’è in questi suoi quadri aspri e 
						ieratici dalle anatomie volutamente sgraziate e incerte, 
						carichi di pathos e di simboli come per l’ambientazione 
						di un tempio primitivo, una sorta di teatralità lirica, 
						di suggestiva ‘messa in scena’ che prende la sua 
						impronta profonda da un sentimento decisamente 
						drammatico dell’esistenza. Ne risulta il senso di un 
						estraniamento, di un distacco, di una distanza […] come 
						in una specie di crepuscolo metafisico”. Da parte sua 
						Teresa Pugliatti [in Mantilla (1974-1985), Gall. 
						Orientalesicula, ME, maggio 2007] sostiene che si ha in 
						Mantilla “una ricerca che scarnifica l’immagine fino ad 
						una apparente schematizzazione. Che è in fondo sintesi 
						mentale della realtà […]. Ma quando lo scavo sta per 
						diventare drammatico, Mantilla escogita un’idea giocosa 
						e pone, per esempio, accanto alla figura, o sulla figura 
						stessa, un particolare bizzarro, o un oggetto misterioso 
						che ne attenua la realtà, trasferendola in una 
						dimensione onirica e/o 
						simbolica”.                                                      
						            
						Che Mantilla sia un 
						malinconico-saturnino, che s’avvolge su se stesso in 
						deliri introspettivi, lo si può desumere anche dalla 
						tavolozza dei dipinti che vanno dal 1984 al 1999 (già 
						presentati alla Ciovasso di Milano): colori scuri, 
						tristi, soffocati e tendenti alla monocromaticità. Lo 
						strano è che anche in tale periodo la sua produzione 
						presentava opere dai colori più caldi e solari (almeno 
						in certi “particolari bizzarri”, come dice la Pugliatti), 
						mentre successivamente si aprirà a tonalità più accese e 
						a un impiego più accentuato dell’azzurro. La sua 
						introspezione – che quando si associa alla deformazione 
						figurale può retrocedere fino a richiamare un manierismo 
						da “talpa” alla Pontormo, come in Nuda appoggiata 
						– bene si sposa a volte con la preferenza di particolari 
						temi simbolistici, intendiamo quello storico di fine 
						Ottocento, come nel ciclo della Salomé, sul quale si è 
						espressa a chiare lettere Anna Maimone [in Catalogo, 
						Gall. Viscontea, Rho (MI), maggio 1998]: “Il fascino di 
						Salomé diventa quello della perversione. […] E’ 
						un’occasione per rappresentare il contrasto tra orrido e 
						sublime, orrore ed eros. In Mantilla, come nei 
						decadenti, il sublime non c’è: restano l’eros e 
						l’orrore”.   
						
						  
						MAURIZIO CITTI
						(Catania 1959 
						– Ivi 2008) nasce nella città etnea un po’ per 
						caso, perché avrà la residenza fissa a Genova, dove 
						passerà l’infanzia e l’adolescenza. Tornerà a Catania in 
						età matura, dopo aver girovagato per l’Italia e 
						all’estero (Lione, Amsterdam, Bruxelles, Stoccarda), 
						partecipando a varie collettive. Ha avuto una formazione 
						da autodidatta, anche se frequenterà una scuola di 
						pittura.  
						
						Di lui dice Claudia Giraud: “Se la tecnica a olio 
						utilizzata nei suoi primi quadri ricalca la pratica 
						impressionista del dipingere en plain air e 
						ricorda la violenza postimpressionista di un Van Gogh, 
						per esempio nell’uso virtuosistico della spatola […], 
						col passare degli anni si precisa in una direzione nuova 
						e più intensa dal punto di vista del colore, in 
						coincidenza con un lungo soggiorno a Berlino, che lo 
						segna indelebilmente. […] Per la conoscenza anche solo 
						museale dei grandi maestri dell’espressionismo tedesco (Emil 
						Nolde su tutti), dai quali apprende la capacità di 
						liberare il colore da ogni funzione meramente 
						descrittiva, per fargli assumere invece un valore 
						espressivo autonomo, dal forte carattere emotivo. […] E’ 
						radicata in lui una forte consapevolezza del senso di 
						responsabilità sociale della condizione di artista, ed è 
						per questo che la sua pittura ha assunto una figurazione 
						drammaticamente coloristica dei grandi temi di interesse 
						nazionale che hanno caratterizzato la politica italiana 
						degli ultimi trent’anni”. 
						
						     
						                                                                                                  Sergio 
						Spadaro 
						
						 Milano, maggio 2009  
						 
  
						 
 
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