Vi 
							sono vite di artisti così poco indicative della loro 
							opera, da persuadere il critico a restare nell’area 
							estetica; quasi che fatti e travagli, se messi in 
							luce come per scommessa, costituiscano alla fine una 
							specie di indiscrezione, un apporto di “colore” 
							superfluo, per non dire dannoso. Certo ogni iter di 
							pittore, ogni sviluppo di un’arte che sia veramente 
							fisionomica, non ha bisogno di pezze d’appoggio; e, 
							senza dubbio, questo è il caso del pittore Christian 
							Hess; ma l’artista tedesco non appartiene alla 
							categoria di quei temperamenti che obbligano a 
							considerare la vita come una privacy, i suoi quadri 
							sono cosi pieni di testimonianze e vivono tali 
							esperienze, estetiche, di costume, di viaggi, di 
							climi, di caratteri, che quasi obbligano il critico 
							a ritrovarne la preistoria, a spiegarsi come e 
							perché l’artista abbia dipinto, guardando nello 
							specchio della sua vita.
							
							
							E a mano 
							a mano che, vicino alle opere compresenti, si 
							collocano momenti diversi della sua esistenza, la 
							personalità del pittore viene fuori a tutto tondo, 
							nella sua umanità e intelligenza, nel suo 
							anticonformismo, nel suo indomito spirito di 
							galantuomo democratico, di viaggiatore, di 
							fuggiasco, di innamorato, di amico dell’Italia e 
							della Sicilia, di fratello.
							
Dico anche di fratello perché per quasi 
							quarant’anni, in mezzo a mille peregrinazioni, egli 
							mantenne profondi legami con
							
							
							la
									sorella Emma, la sorella che - sposata ad un 
							italiano e scelta come sua seconda 
									
							
							patria
									Messina - divenne, unica superstite della 
							famiglia, una specie di madre per l’artista, vissuta 
							da lontano e da vicino all’ombra del pittore; fu lei 
							che conservò e salvò durante l’ultima guerra buona 
							parte delle opere ad olio di Hess, le cartelle dei 
							disegni, la memoria, tappa per tappa dei viaggi e 
							dei successi di lui traducendo perfino in italiano 
							le lettere che le scrisse da ogni parte d’Europa 
							nella lingua natale; fu lei che ordinò via via gli 
							acquerelli, gli schizzi su fogli di ogni occasione e 
							povertà, che seppe ricostruire con l’amore operante 
							della testimonianza l’ideale archivio degli anni del 
							fratello.
							
							
Quarantanove anni in tutto, la vita di Hess, fra due 
							guerre, periodo così drammatico e sconvolgente per 
							la storia non soltanto dell’artista ma dell’umanità, 
							che quasi non vi fu momento di vera pace nella
							
							
							ricerca
									instancabile di libertà. Potrei dire che la 
							vita e l’arte di Hess furono una continua coraggiosa 
							sfida della sua umanità contro due guerre e due 
							dittature. Nato a Bolzano nel 1895 e trasferito coi 
							genitori e le sorelle dopo dieci anni a Innsbruck, 
							il suo destino di artista era già segnato prima di 
							tutto nella mano artigiana: incisioni in legno, 
							linoleum, zinco, arte vetraria, ceramica, affresco, 
							furono i suoi primi cimenti, confortati fin da 
							allora da una cultura umanistica dai validi 
							strumenti, da un amore per l’immagine, felice e 
							perentorio.
							
La prima guerra mondiale lo trova quasi 
							giovinetto nei reparti del Genio con elmo e chiodo, 
							sul fronte belga, a far luce, se così posso dire, 
							come riflettorista in quei tragici campi di 
							battaglia. La Somme, Verdun non furono per lui 
							titoli di giornale, ma lacrime e sangue. Viaggiatore 
							in arte, di giorno, attraverso le chiese 
							abbandonate, disegnatore di naja e di cartoline per 
							la pace nel 1917, finalmente reso libero dalla 
							sconfitta, cominciò nel 1918 il suo primo dopoguerra 
							di speranza a Monaco, centro culturale per le arti, 
							quasi come Parigi. Non che l’artista abbia sposato 
							la causa come si cambia un abito, di quelle ruggenti 
							avanguardie: “Die Brücke”, “Blaue Reiter”, 
							“Novembergruppe” restavano per lui delle ipotesi 
							stimolanti, ma piuttosto un mezzo, uno dei tanti 
							validi, e non un fine.
							
Per Hess, fin da allora, come sempre in tutta la 
							sua carriera, contava l’esperienza di vita, la 
							necessità di raccontare paesi e caratteri, come 
							prova del nove della pittura; non valevano per lui 
							le tendenze come moda, ma come specchio, se mai, di 
							situazioni morali e di costume, di quell’amore per 
							il prossimo, di quella più vasta cittadinanza che 
							s’era data in virtù dell’arte, fuori dei confini di 
							Versailles. E benché abbia sempre operato dinnanzi 
							alle sue tele come un consumato professionista, 
							sapendo ad ogni tappa che cosa volesse e in quali 
							limiti, di tradizione o di avanguardia, dovesse 
							contenersi (tutta l’arte di Hess può definirsi in 
							una marcia di trasferimento da una figurazione post 
							impressionista ed espressionista a un gusto di 
							avanguardia temperato, con qualche punta di 
							astrattismo più programmatico) egli non disdegnò un 
							tipo di lavoro, congeniale alla sua vocazione, ma di 
							stampo più manuale - del resto, stimolante non meno 
							di quello della ricognizione avanguardistica - di 
							copista, su commissione, dai maestri della scuola 
							fiamminga, dal Veronese, da Tiziano, da Velasquez; 
							sia perché i tempi duri non gli consentivano di 
							espletare i suoi compiti di artista con la 
							maiuscola, sia perché - come accennavo - egli intese 
							la sua arte anche come mestiere, nella globalità 
							popolare e dotta, artigiana e sperimentale.
							
Se aveva peregrinato in diversi fronti, in tempo 
							di pace cominciò dunque altri viaggi, in Svezia, in 
							Danimarca, in Austria e già nel 1925 in Italia, 
							naturalmente a Firenze e poi a Messina, per una 
							estate, dalla sorella Emma. Questa meta al Sud, con 
							la Sicilia come regina della natura, mecca della 
							luce, genesi quasi biblica, del colore, sarà una 
							costante dell’artista e quasi una meta. A Messina 
							lavorò fervidamente, a Messina scoperse quella 
							dimensione mediterranea che forse per altri 
							“stranieri” sarebbe stata una occasione di pittorico 
							turismo, ma che per Hess fu una straordinaria 
							palestra di umanità, gloria e miseria, amore per le 
							classi diseredate, rispetto della vita. E ci venne 
							anche in due momenti diversi portando ogni volta una 
							compagna, nel 1926 Maria, vedova giovane di un alto 
							ufficiale imperiale, e nel 1934 Cecilia Faesy, 
							figlia di un banchiere svizzero, che sposò a 
							Messina. Si stabilirono in una casetta nella riviera 
							di Mili, ma dopo qualche mese la moglie ripartì.
							
Non è qui necessario seguire anno per anno le 
							peregrinazioni dell’artista, i suoi arrivi e le sue 
							partenze per Monaco, l’altro punto estremo della sua 
							spola. Ma è il caso di dire che, mentre l’artista 
							portava in Sicilia la sua esperienza di figuratore 
							educato dall’Europa, ricambiava i doni di questa 
							cultura riportando a Monaco e in Germania, 
							condensato nei suoi quadri eseguiti nelle brume, 
							tutto il sole dell’isola. Per vivere continuò a 
							dipingere su ordinazione degli americani venuti a 
							Monaco per il famoso carnevale, ma affrescò a 
							Wismar, tra le bottiglie del vino del Reno non meno 
							generoso del Corvo e del Marsala, la grande cantina 
							di una villa coi ricordi della Sicilia.
							
Il destino delle sue opere, se ne togliamo 
							quelle che conservò la sorella fu incredibilmente 
							negativo: molte andarono distrutte o perdute nei 
							trasferimenti, altre presero in Germania e 
							all’estero la via di collezioni non più reperibili, 
							dopo lunghe giacenze in depositi o presso amici e 
							conoscenti che se ne disfecero, altre bruciate (“un 
							anno di lavoro”) nell’incendio al Glaspalast di 
							Monaco di tutta la mostra dei giovani artisti della 
							Juryfreien, il movimento di punta dei “fuori giuria” 
							del quale il pittore fu animatore. Una storia, 
							quella umana di Hess, che potrebbe interessare anche 
							un narratore o un regista. Lo vediamo a Oeynhausen 
							ad affrescare in quelle terme tra i vapori le pareti 
							con una tecnica speciale a cera, a far conferenze 
							sull’affresco - meta e cavallo di battaglia di tutti 
							i figuratori degli anni Trenta, da quelli del 
							Novecento ai Messicani - con animo archeologico a 
							Selinunte con animo unitario a Palermo; tedesco 
							democratico a Berlino sotto i primi furori 
							“incredibili” dell’hitlerismo, pacifista a Lucerna, 
							a perpetuare la tradizione dell’esule, con la figlia 
							del banchiere senza un soldo, a intagliare pupazzi 
							nel legno alla maniera sopraffina dei carrari di 
							Bagheria e a far scenari per i teatri di marionette, 
							mentre gli amici restati in patria gli scrivevano 
							della Germania “cose mostruose”. Lo ritroviamo a 
							Roma negli anni della Conciliazione, venuto al Sud 
							cogli abiti d’estate in un inverno inclemente, a 
							ghiacciarsi nei Musei e per le strade che 
							“formicolavano di preti e di gendarmi”, tanto che si 
							ammala, viene curato dai compatrioti e visitato da 
							Karl Hofer.
							
E’ tanta la nostalgia del lavoro, che appena 
							convalescente ritorna a Monaco. E, tipico specchio 
							di anticonformismo, quasi di ribellione, nel 1931, 
							alla massima apoteosi delle “camicie brune” egli 
							risponde col massimo della sua sperimentazione 
							astratta, forse l’unica proposta di libertà che 
							poteva concedersi un artista in quella tragedia.
							
Coi pochi quadri rispeditigli dagli amici dopo 
							il soggiorno di Lucerna, la fuga in Sicilia, la 
							separazione da Cecilia, restò a Messina quasi tre 
							anni, dal 1935 al 1938, in una situazione economica 
							e psicologica di gravissima crisi, tanto che per due 
							volte tentò di togliersi la vita. Non è a dire che 
							l’Italia fosse anche per lui un Eden: tolta la 
							natura, l’archeologia, la potente capacità di 
							sopravvivenza delle classi popolari, l’aria del 
							regime, avvertita soprattutto nella frequentazione 
							della media borghesia, lo avvelenava anche da noi; e 
							più forte avvertiva il divario di una cultura in 
							quegli anni depressa nel campo delle arti figurative 
							(i migliori artisti nati nell’isola erano emigrati 
							al Nord, da Guttuso a Consagra, da Mazzullo a 
							Migneco da Franchina a tanti altri), ancorata a una 
							tradizione, nella migliore delle ipotesi, 
							novecentesca e la sua esperienza quasi ventennale, 
							aperta alle tendenze di avanguardia.
							
Fino a che l’artista veniva in Italia dalla 
							piattaforma europea, l’Italia gli appariva dunque 
							come una inesauribile miniera di tesori d’arte, di 
							suggestioni nella natura; ma ora, tagliato fuori dal 
							suo Paese, inagibile, egli soffriva tutta la 
							solitudine di un vero abbandono, né la difficoltà 
							della lingua poteva facilitare l’incontro con quei 
							“solitari nostrani”, che anche allora non mancavano 
							- anzi - ma che non conobbe.
							
Tornato in Svizzera, trascorse un periodo assai 
							gramo nel continuo timore di una espulsione come 
							cittadino tedesco, costretto ad esporre e a vendere 
							i suoi quadri non firmati. Ma la Germania lo 
							calamitava sempre, la nostalgia della “sua gente” 
							era per lui fortissima, tanto più nel quadro di 
							quella mortificazione generale. E nei buoni ed 
							onesti come fu lui, era anche una specie di speranza 
							impossibile, tuttavia accarezzata, di riuscire a 
							vivere anche in mezzo ai nazisti, salvando la 
							libertà: “I segni che in Germania si prepara 
							qualcosa, sono evidenti e i miei amici mi scrivono 
							cose mostruose. Voglio andarli a trovare entro 
							l’anno prossimo per convincermi se vi potrà essere 
							ancora libertà per il nostro lavoro o se tutto è 
							ormai perduto. In questo caso sarà indifferente dove 
							mi metteranno in carcere...”.
							
Ed eccolo nel 1939 di nuovo a Monaco. Un deserto 
							la vita artistica, e lui troppo legato a questa per 
							assumere, militandone fuori, un ruolo antinazista. 
							Dalla Svizzera era partito sotto l’incubo 
							dell’espulsione, a Monaco viveva nel terrore di un 
							richiamo alle armi, per una guerra ben più
							odiata di quella del ‘15-18. Segnalato dalla 
							polizia a Oberwössen, fu dall’oggi al domani 
							incorporato nel servizio civile e assegnato alle 
							Poste. Cinque anni ancora di tribolazioni, la grave 
							malattia ai polmoni, il sanatorio, la precaria 
							“convalescenza” nella miseria dopo la chiusura della 
							fabbrica di tessuti per la quale preparava i disegni 
							a trecento marchi al mese, l’ultimo suo lavoro a 
							Zirl sulI’Inn dove affresca le sale del palazzo 
							comunale e “l’unica (sua) gioia - scrisse 
							nell’ultima lettera alla sorella - la lettura dei 
							poeti greci e un quarto di vino rosso”.
							
Nel novembre del 1944 mentre ancora inseguiva la 
							sua introvabile pace, la guerra lo raggiunse e lo 
							stroncò. Respirava ancora quando fu disseppellito 
							dalle macerie di quella incursione aerea. Il 26 
							dello stesse mese morì nell’ospedale di Schwaz, 
							presso Innsbruck.
							
							“Che 
							nessuno si fidi di darmi in mano un fucile, tranne 
							che contro Hitler
							
							- aveva scritto alla sorella - Certamente lui 
							sarà ucciso prima che noi si debba imbracciare le 
							armi e compiere ciò che lui e i suoi fanno 
							adesso...”.  
							E se gli eventi non furono questi, gli riuscì 
							almeno di marciare fino in fondo verso la morte come 
							un soldato della pace.
							
Non che l’artista abbia avuto in morte tutti gli 
							onori che meritava il suo talento, si può dire, 
							anzi, che per la prima volta dal lontano 1944, 
							parenti, collezionisti, estimatori, studiosi, hanno 
							sentito la necessità di riproporre in una quanto più 
							ampia e illuminante ricostruzione, tutta l’opera del 
							pittore tedesco, con una serie di iniziative che ne 
							esaltino qualità e prestigio. Ma è doveroso e 
							confortante ricordare che, nei limiti di quei tempi 
							stremati seguiti alla guerra, la carità di patria 
							non mancò a Christian Hess, se già nel 1948 
							all’Exportschau di Monaco diverse tele dell’artista 
							furono esposte insieme a quelle di Max Beckmann e di 
							Willi Baumeister, due maestri tedeschi, insieme a 
							tanti altri perseguitati dal nazismo, che tennero 
							alta la bandiera dell’arte di avanguardia odiando la 
							dittatura.
							
							
							
Vorrei 
							cominciare la lettura delle opere di Hess con 
							un’opera del 1922, 
							
							
							
							
							“Baronessa con veletta”, 
							perché l’allora ventisettenne pittore mostra con 
							questo quadro un biglietto da visita, per dir così, 
							stampato nei caratteri cittadini della Monaco del 
							dopoguerra, la più “ruggente” e informata, la più 
							spregiudicata; e anche se l’artista arriva a 
							bloccare in un ritratto parlante il clima delle 
							esperienze dopo i decenni della “scuola di Parigi” 
							in virtù del suo temperamento, più di intuizione che 
							di programma, l’opera resta pur sempre un punto 
							fermo della sua qualità e della sua cultura: una 
							statura, insomma, dalla quale egli potrà concedersi 
							esperienze assai diverse e anche lontane fra loro, 
							perfino ritorni nell’area impressionista e 
							espressionista tout court, ma mai tornare indietro o 
							ripiegare su posizioni di comodo. Dunque, dentro un 
							fondo perla azzurro, serico, l’aristocratica dai 
							capelli rossi debellati, dagli occhi a palla che 
							guardano fra noia e ostilità, attraverso le paglie 
							cenere della mezza veletta, celata d’aria 
							all’indiscreto per la sua indiscrezione 
							costituzionale, la pelle bianca su cui rossetto e 
							bistro fanno un altro incarnato - non si strucca 
							neppure per implorare, se mai l’ha fatto - le 
							braccia conserte sul freddo del vestito di raso, 
							semplice come quello di una spartana da salotto, è 
							personaggio così autorevole e preciso, da vivere di 
							vita propria dopo tant’anni di polvere, fra donne di 
							eguale grinta e rispetto di questo 1974, inter 
							pares.
							
Un altro dipinto a mio avviso importante, anche 
							se di impegno minore e poco più di un bozzetto, che 
							merita di essere illustrato al principio di questa 
							analisi, è 
							
							
							
							
							
							“Bagnanti sul lago” 
							(1924) di tutt’altra grana, dove l’impeto 
							espressionista non riesce a depositarsi; ma piace la 
							veemenza del segno tutto di pennello, il ritmo 
							serrato della composizione, quel di più di 
							pittoresco che dalla scena romantica di un 
							Delacroix, diventa immagine di natura, uno dei punti 
							di oscillazione dell’arte di Hess.
							
Perché è il caso di precisare subito che il 
							pittore, per tutto il suo arco operativo, pur 
							mantenendo una riconoscibile costante in chiave 
							realistico espressionista, la sua bella tensione 
							plastica per una sintesi della realtà sensibile, 
							sperimenterà, ora in chiave di assaggio o solfeggio 
							per una prova della luce e della cromia, ora in 
							chiave di più approfondita progettazione nel segno e 
							nel rigore volumetrico, altri “gusti”, passati e 
							coevi: dall’impressionismo, risentito, per 
							pennellata, cadenze e tavolozza nell’espressionismo 
							- ma eseguirà anche opere legate allo schema post 
							impressionista naturalista, per es. del tipo del 
							nostro Arturo Tosi -, ai modi abbastanza simili a 
							quelli del Novecento italiano, cosi come la 
							saturazione avanguardistica li aveva collocati 
							dentro i ripensamenti del “ritorno all’ordine” e 
							contemporaneamente (sembra una contraddizione, ma 
							non lo è, per un artista che viene da lontano) ai 
							modi degli astrattisti tedeschi e italiani a cavallo 
							degli anni Trenta, Baumeister prima di tutto.
							
Del resto, se in diversi momenti della sua ricca 
							e varia carriera il pittore avvertì la lezione 
							dell’arte italiana, assai scarsa in quegli anni di 
							lieviti impressionisti, fu per lui piuttosto un 
							incontro con la solarità del nostro paesaggio, in un 
							impeto tutto tedesco, espressionista al fondo. Si 
							guardi a questo proposito, della sua prima stagione 
							italiana, meridionale e siciliana, nel quadro dell’ 
							
							
							“Asinello e fichi d’india”, 
							come è cupa e obnubilata l’atmosfera, come si 
							assommano per macchie risentite le pennellate, a 
							fare una tessitura irta e smagliata, come l’animale 
							è piantato sghembo sulla sua ombra violetta, come 
							irrompano i fichi d’india, scheggioni di 
							luce-colore, fino a quel mulinello del cielo, che 
							pare l’inizio di un cataclisma.
							
Per quanto poi riguarda la sua affinità col 
							Novecento italiano, che dovette pur apprezzare nei 
							suoi valori e maestri maggiori, più che l’aspetto 
							mitico e classicheggiante, celebrativo e 
							trionfalistico del “grande passato” 
							accarezzato dalle medie borghesie uscite fuori 
							“deluse” dalla prima guerra mondiale, Hess coglie 
							del “ritorno all’ordine” quello che Lionello Venturi 
							chiamò il “ritorno alla natura” e dell’Italia e 
							della Sicilia gli aspetti umani, nobilitando dentro 
							un rigore plastico ben lontano da artifici 
							accademici e manieristici, tipi e folklore, volti di 
							piazze italiane e di regioni:  
							
							
							“Campagna di Firenze”, 
								“Carretti e 
							ulivi a Messina”,
							
							
							
							
							
							“Sotto i fichi d’india”, 
							
							
							“Bracciano”, 
							
							
							“I templi di Agrigento”, 
							
							
							“Forte Gonzaga a Messina”
							
							
							- di cui e’ riconoscibile, oggi, soltanto il 
							cucuzzolo turrito del monte - “Piazza Navona”, nel 
							gusto incredibilmente vicino a quello del Virgilio
							Guidi prima della sua partenza per Venezia 
							intorno al 1925, sono tutte presenze italiane, tanto 
							libere, quanto responsabili: perché dovunque 
							l’artista arrivasse in quella sua vita di pittura, 
							o, se si preferisce, in quella pittura tutta nella 
							vita, sapeva avvalersi della natura come di un 
							baricentro, la sua visione era sempre “all’interno”  
							del luogo, non turistica, non evasiva.
							
E’pure del 1925 
								
							
							“Donna che riposa”. 
							Mi pare che in quest’opera cosi robustamente 
							dipinta, della dormiente che racchiude le braccia al 
							petto per una costrizione necessitata dal rettangolo 
							della tela, ma altrettanto naturale nella posa, come 
							sono appunto le pose che esprimono un preciso stato 
							d’animo e quasi una condizione della vita, il 
							bronzeo tono della luce pomeridiana, la felicità dei 
							pochi elementi ambientali, quel riquadro di azzurro 
							alla brava che richiama come in un “emblema di mare” 
							la presenza del Sud, continui la costante del 
							pittore, collocandosi sempre più autorevolmente nel 
							quadro dei valori umanistici conservati dopo lo 
							scoppio delle avanguardie, senza alcuna recitazione 
							novecentesca e senza alcuna indulgenza 
							naturalistica.
							
E’ bene sottolineare a questo punto che, se 
							parecchie opere di Hess, specie disegni e ritratti, 
							sono affidati ad una vena di energica figurazione 
							diretta, al temperamento del disegnatore, fin quasi 
							a configurare nell’arte del pittore una specie di 
							altra faccia della luna naturalistica, sempre il 
							motivo ad olio è rimeditato con la dovuta 
							elaborazione cromatica, diventa astratto, acquista 
							le inconfondibili e gravi cadenze di sintesi del 
							Maestro. Del resto, da un esame attento di tutta 
							l’opera grafica e minore di Hess, si ricava, anche 
							qui, che i motivi e i modi realistici non sono fini 
							a sé stessi, ma costituiscono, il più delle volte, 
							una necessaria preistoria all’iter maiuscolo dei 
							suoi quadri.
							
Se certo non si può parlare nell’arte di Hess di 
							una continua mediazione di Monaco con Messina, si 
							può affermare che una cultura midleuropea e una 
							cul–tura mediterranea abbiano trovato nell’artista 
							parecchi punti di armonia. E fin dal 1928 il clima 
							di Monaco, al quale si ispirò pure il De Chirico 
							metafisico, si trasferì nella mediterraneità dei 
							suoi soggetti e paesaggi. Come pure accadde il 
							contrario e cioè che il richiamo luministico del 
							paesaggio siciliano abbia preso la mano al pittore 
							(ma con un abbandono nella carne della pittura, che 
							alla fine si traduce in una sorta di rinsanguamento) 
							in opere del tipo di 
							
							
							
							“Uliveto con casa”, 
							
							
							“Via Palmara”, 
							
							
							“Uliveto con donne”.  
							Ma si guardi del 1927 il “Nettuno”, uno dei quadri 
							inconfondibili di Hess quale viaggiatore del sole, 
							quale artista pensante con la mente monacense 
							dinnanzi a una “materia” messinese: quel Dio 
							dell’acqua su basamento che sporge il braccio come 
							un Cesare, più nudo che statua, fra i due 
							rimorchiatori listati di rosso e di nero nella gran 
							luce azzurra del porto e il popolo ai suoi piedi, 
							mitologico e no, una assemblea da fontana che è 
							insieme inno alla presenza muliebre, quel Nettuno 
							che in tanti disegni e schizzi l’artista fa sbucare 
							dietro balconi di case (alla maniera delle 
							gigantesse di Picasso del periodo “surrealista” in 
							bianco e azzurro o nel paterno grottesco dei barbuti 
							vecchiardi di Savinio tra favola e archeologia) sono 
							ingredienti di gusto aristocratico, ma calati in un 
							sentimento che tiene conto del lavoro e della 
							fatica, che ripresenta il paesaggio siciliano come 
							l’habitat dell’uomo laborioso e organizzato.
							
							
Invece, sempre del 1927 col quadro 
							“Caprone sotto i fichi d’india”  l’artista si trova, 
							mente e sensi, tutto o quasi, “da noi”: il caprone 
							preistorico nella calura riverberata dalle rocce, 
							quell’albero dalle pale possenti, plasticate come 
							per una presenza tridimensionale, quella sintesi che 
							scatta da una visione che impressionista non è più, 
							che cerca un’altra collocazione e la trova nei suoi 
							ritmi di rosa e verde, di primi piani a stacco della 
							profonda valletta. Come pure si tratta di Sicilia 
							nel quadro appunto dal titolo 
								
							“Balcone in Sicilia”, eseguito un anno dopo; ma 
							qui - si ripetono le oscillazioni culturali e di 
							ispirazione dell’artista - prevale lo schema 
							astratto nella “rarefazione” dei pretesti della 
							natura morta in primo piano nell’astrazione di una 
							realtà sensibile, nell’equilibrio fra schema mentale 
							e natura. E della stessa sintesi è il puro e intenso 
							acquerello “Firenze 1928” con quel sole di mite 
							incandescenza sul controluce smeraldo della collina. 
							E che dire delle “punte avanguardistiche” quasi alle 
							soglie della metafisica (ma qui veramente l’artista 
							non passa attraverso De Chirico, se mai entrambi si 
							rifanno a un gusto simbolico nella natura, di 
							Böcklin) del bellissimo dipinto “Bracciano” col 
							ponte di ferro che semi-nasconde il castello, il 
							quale a sua volta appare con la facciata dalle 
							finestre cieche nei neri dechirichiani, rosato, 
							dentro l’alone del cielo? Quadro rigoroso nella 
							“macchina” compositiva, ritmata dalle liste del 
							ponte in una chiave grafica, intrise di verde nei 
							tiranti che bucano la prospettiva, una delle opere 
							che si ricordano anche al di fuori e al di sopra 
							dell’iter di Hess.
							
Un gruppo di opere, tutte del 1928, 
							stanno nel mezzo, nei punti medi delle sue vane 
							esperienze, prevalendo, anche per l’imperativo dei 
							temi, un gusto realistico. Mi riferisco a “Ragazza 
							che dorme su cuscino giallo”, che presenta la 
							medesima struttura “anti-impressionistica” del 
							quadro del caprone, il medesimo piglio vigoroso a 
							bloccare l’insieme, quella dolcezza calata nella 
							forza, quel luminismo castigato nei chiaroscuri, che 
							però si risolvono in volumi niente affatto 
							“romantici”. Del ‘28 è anche il 
								
							“Suonatore biondo”, opera che partecipò a un 
							concorso sul tema “Musica nella pittura”, nelle due 
							versioni che presero il titolo di “Prova al concerto 
							1 e 2”, dove, ovviamente, più che la musica, è 
							personaggio il giovane suonatore di oboe, dagli 
							occhi bruni e teneri, il pelo sulle guance non 
							rasato, la sciarpa di seta a coprir la maglia e 
							quelle due rughe di impennata povertà sulla fronte; 
							a fare il present’arm col suo strumento. Hess eseguì 
							parecchi ritratti anche su commissione, ad olio e a 
							tutto tondo, cimentandosi anche nella scultura, che 
							però gli servì soltanto come palestra di 
							ricognizione plastica e che non considerò mai come 
							obbiettivo finale di espressione.
							
Taluni ritratti però sono bellissimi, 
							come il primo dipinto qui illustrato, e come questo 
							di famiglia “La signora M. N. con i figli” (1928), 
							una delle più belle madri-leonesse che io ricordi 
							dei moderni, in quel gusto umanistico e “astratto”, 
							da Cezanne, che ritrova in maniera tanto consapevole 
							la chiave populista dei Picasso rosa e bleu, specie 
							a guardare la testa del bambino sulla destra del 
							quadro. Ritratto di famiglia, nel medesimo clima, 
							può essere considerato anche il dipinto “Coppia in 
							costume da bagno” (1930) dove il Picasso del periodo 
							rosa sembra prender carne nella naturalezza di 
							quell’incontro dei giovani, quasi coniugale, nella 
							sintesi cristallina della bionda, nella croccanza 
							dello smalto che si stratifica come se un polline si 
							condensasse, nella luce insolitamente mattinale - 
							che pur svaria in curiose nicchie di fondi, dietro 
							le teste dei personaggi - in quello spazio araldico 
							entro il quale sono collocate le figure.
							
							
Vitalità fra “attimo fuggente” e sintesi 
							plastica è anche nel ritratto della “Donna col 
							cappello nero” (1930), psicologicamente resa 
							attraverso l’immensificazione degli occhi, il 
							collocamento del busto, molto in basso rispetto alla 
							campitura gialla del fondo, con quel lutto mentale, 
							quel pensiero fisso, reso come rituale dal cappello 
							a cimiero. Ritratti, come si vede, ben fuori della 
							convenzione e dell’occasione, ma incontri con 
							persone da capire ed amare, specchio di anime nei 
							segni e nei colori. Come anche in “Donna in celeste” 
							(1931) che pare una tempera, tanto la sintesi 
							impoverisce volutamente l’iride e spegne le gamme 
							splendenti. Il viso è scavato quasi in un bianco e 
							nero, e l’antigrazioso della faccia, dura, 
							disadorna, è riscattato dalla naturalezza, direi 
							dalla umanità di questa presenza, che ride seria.
							
Dicevo che l’aria di Monaco rende 
							pungenti, notazioni e temi di natura già negli anni 
							Trenta e vi sono opere di questo momento ancora più 
							esplicite nel gusto delle avanguardie di allora, che 
							lo attestano, come per esempio “Case rosso-nero” uno 
							schema di paesaggio non del tutto trovato 
							nell’astrazione, ma con belle cadenze di geometrie 
							luministiche, a zebrare e scheggiare di bianco il 
							fondo di persa ceralacca. (Una tavolozza che sarebbe 
							piaciuta al Prampolini di queghi anni). Dal 1931 al 
							1935 i modi, chiamiamoli cosi, realistici e quelli 
							astratti, si alternano nella pittura di Hess con 
							tale tensione, da costituire quasi due anime in una, 
							due momenti che si caricano a vicenda. Si veda, 
							della oscillazione astratta, il felicissimo dipinto 
								“Melanzane e 
							peperoni” (1933) ovvero la “Natura morta con la 
							gazzetta”, risolta con l’autorità di chi ha saputo 
							ridurre a sintesi la impressione sensibile e 
							capovolgere verticalmente il piano, come per una 
							contemplazione senza più un centro prospettico; “I 
							piccioni sulla terrazza”, deliziosa fiaba tra 
							balaustrate di marmo, cupole e nubi, queste ultime 
							ritagliate nello spazio come forme “decorative”, 
							eppure cosi viventi nel cielo tra ardesia e azzurro, 
							con quelle tre soavi colombe fatte di luce, 
							composizione perfettamente scandita e di preciso 
							valore poetico; e, per proseguire in questo 
							inventario di opere in prevalenza astratte, quel 
							piccolo capolavoro delle “Aguglie sulla fruttiera” 
							(1933), con tagli così asciutti di cromia, tra 
							cubismo e chiaroscuro, tra pittura all’aperto e 
							affresco nel tetro lume degli interni, che pare 
							cugina della tavolozza degli “omini” di Ottone 
							Rosai, e proprio negli anni Trenta.
							
E ancora: la “Natura morta verticale” dei 
							pesci rossi e dei fichi d’india, modulata nella 
							prospettiva ribaltata che s’è vista a proposito di 
							“Melanzane e peperoni”, la “Natura morta della 
							quartara”, più un assaggio, nella sintesi pur 
							felice, morbida nelle gamme verdi e cotogna (1933). 
							E se passiamo alla figura, nella quale, come ho 
							indicato illustrando opere eseguite in vane date, 
							l’abbandono al vero ha per Hess un ruolo importante, 
							non dobbiamo dimenticarci che uno dei personaggi 
							dipinti dall’artista, piü vivi e oniginali, è 
							l’astrattissimo “Giocatore di scacchi” (1931) col 
							braccio appoggiato alla scacchiera come su una 
							mensola della foto ricordo, gli occhi di carbone, il 
							chiaroscuro della faccia così metallico da creargli 
							una sorta di pelugine, una muffa d’ombra, il 
							magnifico riquadro del biliardo, l’ambientazione 
							quasi funeraria del fondo sul rosso baldacchino, una 
							delle massime punte di liberazione e di invenzione 
							del Maestro. Ma nel discorso più legato all’Italia e 
							al suo folklore, sono pezzi tipici di Hess, in 
							primis, ”L’indovino” (1933), motivo assai 
							accarezzato e riproposto dall’artista in numerosi 
							disegni, di insieme e di particolari. In questo 
							quadro fondamentale si assiste a una specie di 
							inventario dei motivi siciliani, che però si 
							armonizzano in una scena-composizione; e non 
							perdendo per questo la loro vitalità quasi 
							simbolica, nulla concedono ad una descrizione di 
							comodo: il primo piano del carretto siciliano con i 
							suoi colori arancio, bleu e rosso, il cesto delle 
							melanzane bianche, sormontato dalla testa del 
							pescatore con la corta pipa di gesso, inclita e 
							cose, su cui svetta (come svetta il Nettuno sulle 
							matrone di fontana nel porto di Messina) il 
							personaggio della fantasia popolare, il portatore di 
							illusorio futuro, con la coppola contadina, la 
							tromba e la gabbietta, su cui prillano le 
							bandierine, non esclusa quella italiana, non a caso, 
							e per pura incidenza formale, già... repubblicana. E 
							quale attonita curiosità, quale rispetto della gente 
							per quel messaggero della fortuna.
							
							
							
							
							
							
							Immedesimazione nel popolo siciliano, quella di 
							Hess, per dare la necessaria compagnia alla sua 
							solitudine di viaggiatore della pace. E ci si mise 
							anche lui a vogare, in barca e dentro il quadro, con 
							il baschetto rosso, la grinta che par sorridere ai 
							nipoti, l’impugnatura ciclopica del remo per fare la 
							storia di Scilla e Cariddi, lui del Nord, come a 
							dire che non c’è altra patria che quella del sole, 
							che il lavoro e la fiducia nella vita non hanno 
							confini. Mi riferisco al quadro dal titolo 
							“Autoritratto sulla barca” (1933).
							
							
Anche l’olio “Ladro e carabiniere” (1934) 
							è quadro tipico dell’Hess italiano il picciotto 
							catturato, non si sa bene se faccia semplicemente il 
							modello per portar colombe, o mostri il corpo del 
							reato. E senza voler calcare su questo simbolo, 
							viene spontaneo alla mente questo "furto di pace”, 
							nella colomba. Fatto sta che il carabiniere in alta 
							uniforme, forse per conferire prestigio all’ingrato 
							compito della giustizia, coi baffoni marziali per 
							aiutare lo sgomento, la bocca atteggiata a un mezzo 
							sorriso per farsi perdonare, si presenta quasi come 
							un amico, un cugino dell’altro in borghese. Qui Hess 
							ha colto in una chiave tutta insulare, che però non 
							gli fu mai estranea, anzi, in altre drammatiche 
							circostanze nel suo Paese, l’antica protesta del 
							diseredato contro “la legge” ed ha atteggiato i due 
							a una recita che si ripete ormai da secoli, la 
							miseria che si fa colpa e perciò diventa un castigo, 
							anche da parte della legge. E quali smaglianti 
							colori, a dire questa parabola, quale naturalezza di 
							scena, vista e presa, dopo tanti disegni ed 
							acquerelli, fortunatamente conservati.
							
							
Dicevo che v’è un gruppo di opere di Hess 
							che si avvicina al gusto del Novecento, sia per una 
							accentuazione veristico accademica, sia per una 
							certa “solennità” di positure. Nei dipinti più veri, 
							collocherei “La prova delle modelle” (1931) e “Nuda 
							in piedi che si pettina” (1932), in quelli di un 
							certo rigore jeratico, “Riposo dei muratori” (1929), 
							“Bagnante col turbante” e “Bagni di sole” (1931). 
							Tra i motivi più validi dell’artista, sono, come ho 
							già detto, quelli delle figure femminili, di 
							vigorosa sintesi, “Nel camerino”  (1932),  
							“Due modelle”, “Tre modelle” (1933) e tra i nudi, 
							quella perla di bianco e rosa, distesa sul letto di 
							tulle trasparente, incapsulata e come riscattata 
							dalla sua delizia, in un fondo di mare e vele 
							metallico, che redime la straordinaria morbidezza 
							del corpo “Suggestione” (1934) e anche “Nudo di 
							spalle” (1931) di notevole vigore plastico, in una 
							nostalgia dell’ultimo Renoir.
							
Ma voglio finire, come ho cominciato, con 
							un altro capolavoro dell’arte di Hess, di soggetto 
							femminile e anche questo un ritratto, che mantiene 
							fede alle premesse già maiuscole dell’antico dipinto 
							della “Baronessa”, la “Modella nell'atelier” (1932): 
							a cominciare dall’originale taglio sghembo del viso, 
							rispetto al rettangolo del quadro, la frangetta, la 
							faccia a mandorla, il gran mento sufficiente, la 
							pelliccia tarlata del volpino sulle spalle, ma cosi 
							“irosa” nella cromia e nello smalto, che sembra 
							stringersi attorno al collo l’animale ancor vivo.
							
							
							Non mi 
							rimane che aggiungere, a conclusione di questo 
							ritratto di artista, che di rado mi è accaduto di 
							scrivere su una personalità di pittore, a me del 
							tutto sconosciuta e come risorta dal nulla, con 
							l’entusiasmo e la convinzione di una antica 
							amicizia; mi pareva di averlo avuto sempre presente, 
							che mi dettasse lui stesso, dai quadri, 
							naturalmente, le parole da dire. Sono tanti anni 
							ormai che faccio il mestiere di critico e credo che 
							sia difficile sbagliarmi, quando una voce mi chiama 
							a questo modo: vuol dire che l’artista c’è, con il 
							suo dolce furore di vita, la sua gloria.
							Marcello Venturoli