Criticism

it de en

   
 
La Sicilia quasi una meta
Marcello Venturoli
 
Dal Catalogo: Christian Hess (Palermo 1974)
 

Vi sono vite di artisti così poco indicative della loro opera, da persuadere il critico a restare nell’area estetica; quasi che fatti e travagli, se messi in luce come per scommessa, costituiscano alla fine una specie di indiscrezione, un apporto di “colore” superfluo, per non dire dannoso. Certo ogni iter di pittore, ogni sviluppo di un’arte che sia veramente fisionomica, non ha bisogno di pezze d’appoggio; e, senza dubbio, questo è il caso del pittore Christian Hess; ma l’artista tedesco non appartiene alla categoria di quei temperamenti che obbligano a considerare la vita come una privacy, i suoi quadri sono cosi pieni di testimonianze e vivono tali esperienze, estetiche, di costume, di viaggi, di climi, di caratteri, che quasi obbligano il critico a ritrovarne la preistoria, a spiegarsi come e perché l’artista abbia dipinto, guardando nello specchio della sua vita.
E a mano a mano che, vicino alle opere compresenti, si collocano momenti diversi della sua esistenza, la personalità del pittore viene fuori a tutto tondo, nella sua umanità e intelligenza, nel suo anticonformismo, nel suo indomito spirito di galantuomo democratico, di viaggiatore, di fuggiasco, di innamorato, di amico dell’Italia e della Sicilia, di fratello.

Dico anche di fratello perché per quasi quarant’anni, in mezzo a mille peregrinazioni, egli mantenne profondi legami con
la sorella Emma, la sorella che - sposata ad un italiano e scelta come sua seconda patria Messina - divenne, unica superstite della famiglia, una specie di madre per l’artista, vissuta da lontano e da vicino all’ombra del pittore; fu lei che conservò e salvò durante l’ultima guerra buona parte delle opere ad olio di Hess, le cartelle dei disegni, la memoria, tappa per tappa dei viaggi e dei successi di lui traducendo perfino in italiano le lettere che le scrisse da ogni parte d’Europa nella lingua natale; fu lei che ordinò via via gli acquerelli, gli schizzi su fogli di ogni occasione e povertà, che seppe ricostruire con l’amore operante della testimonianza l’ideale archivio degli anni del fratello.

Quarantanove anni in tutto, la vita di Hess, fra due guerre, periodo così drammatico e sconvolgente per la storia non soltanto dell’artista ma dell’umanità, che quasi non vi fu momento di vera pace nella
ricerca instancabile di libertà. Potrei dire che la vita e l’arte di Hess furono una continua coraggiosa sfida della sua umanità contro due guerre e due dittature. Nato a Bolzano nel 1895 e trasferito coi genitori e le sorelle dopo dieci anni a Innsbruck, il suo destino di artista era già segnato prima di tutto nella mano artigiana: incisioni in legno, linoleum, zinco, arte vetraria, ceramica, affresco, furono i suoi primi cimenti, confortati fin da allora da una cultura umanistica dai validi strumenti, da un amore per l’immagine, felice e perentorio.

La prima guerra mondiale lo trova quasi giovinetto nei reparti del Genio con elmo e chiodo, sul fronte belga, a far luce, se così posso dire, come riflettorista in quei tragici campi di battaglia. La Somme, Verdun non furono per lui titoli di giornale, ma lacrime e sangue. Viaggiatore in arte, di giorno, attraverso le chiese abbandonate, disegnatore di naja e di cartoline per la pace nel 1917, finalmente reso libero dalla sconfitta, cominciò nel 1918 il suo primo dopoguerra di speranza a Monaco, centro culturale per le arti, quasi come Parigi. Non che l’artista abbia sposato la causa come si cambia un abito, di quelle ruggenti avanguardie: “Die Brücke”, “Blaue Reiter”, “Novembergruppe” restavano per lui delle ipotesi stimolanti, ma piuttosto un mezzo, uno dei tanti validi, e non un fine.

Per Hess, fin da allora, come sempre in tutta la sua carriera, contava l’esperienza di vita, la necessità di raccontare paesi e caratteri, come prova del nove della pittura; non valevano per lui le tendenze come moda, ma come specchio, se mai, di situazioni morali e di costume, di quell’amore per il prossimo, di quella più vasta cittadinanza che s’era data in virtù dell’arte, fuori dei confini di Versailles. E benché abbia sempre operato dinnanzi alle sue tele come un consumato professionista, sapendo ad ogni tappa che cosa volesse e in quali limiti, di tradizione o di avanguardia, dovesse contenersi (tutta l’arte di Hess può definirsi in una marcia di trasferimento da una figurazione post impressionista ed espressionista a un gusto di avanguardia temperato, con qualche punta di astrattismo più programmatico) egli non disdegnò un tipo di lavoro, congeniale alla sua vocazione, ma di stampo più manuale - del resto, stimolante non meno di quello della ricognizione avanguardistica - di copista, su commissione, dai maestri della scuola fiamminga, dal Veronese, da Tiziano, da Velasquez; sia perché i tempi duri non gli consentivano di espletare i suoi compiti di artista con la maiuscola, sia perché - come accennavo - egli intese la sua arte anche come mestiere, nella globalità popolare e dotta, artigiana e sperimentale.

Se aveva peregrinato in diversi fronti, in tempo di pace cominciò dunque altri viaggi, in Svezia, in Danimarca, in Austria e già nel 1925 in Italia, naturalmente a Firenze e poi a Messina, per una estate, dalla sorella Emma. Questa meta al Sud, con la Sicilia come regina della natura, mecca della luce, genesi quasi biblica, del colore, sarà una costante dell’artista e quasi una meta. A Messina lavorò fervidamente, a Messina scoperse quella dimensione mediterranea che forse per altri “stranieri” sarebbe stata una occasione di pittorico turismo, ma che per Hess fu una straordinaria palestra di umanità, gloria e miseria, amore per le classi diseredate, rispetto della vita. E ci venne anche in due momenti diversi portando ogni volta una compagna, nel 1926 Maria, vedova giovane di un alto ufficiale imperiale, e nel 1934 Cecilia Faesy, figlia di un banchiere svizzero, che sposò a Messina. Si stabilirono in una casetta nella riviera di Mili, ma dopo qualche mese la moglie ripartì.

Non è qui necessario seguire anno per anno le peregrinazioni dell’artista, i suoi arrivi e le sue partenze per Monaco, l’altro punto estremo della sua spola. Ma è il caso di dire che, mentre l’artista portava in Sicilia la sua esperienza di figuratore educato dall’Europa, ricambiava i doni di questa cultura riportando a Monaco e in Germania, condensato nei suoi quadri eseguiti nelle brume, tutto il sole dell’isola. Per vivere continuò a dipingere su ordinazione degli americani venuti a Monaco per il famoso carnevale, ma affrescò a Wismar, tra le bottiglie del vino del Reno non meno generoso del Corvo e del Marsala, la grande cantina di una villa coi ricordi della Sicilia.

Il destino delle sue opere, se ne togliamo quelle che conservò la sorella fu incredibilmente negativo: molte andarono distrutte o perdute nei trasferimenti, altre presero in Germania e all’estero la via di collezioni non più reperibili, dopo lunghe giacenze in depositi o presso amici e conoscenti che se ne disfecero, altre bruciate (“un anno di lavoro”) nell’incendio al Glaspalast di Monaco di tutta la mostra dei giovani artisti della Juryfreien, il movimento di punta dei “fuori giuria” del quale il pittore fu animatore. Una storia, quella umana di Hess, che potrebbe interessare anche un narratore o un regista. Lo vediamo a Oeynhausen ad affrescare in quelle terme tra i vapori le pareti con una tecnica speciale a cera, a far conferenze sull’affresco - meta e cavallo di battaglia di tutti i figuratori degli anni Trenta, da quelli del Novecento ai Messicani - con animo archeologico a Selinunte con animo unitario a Palermo; tedesco democratico a Berlino sotto i primi furori “incredibili” dell’hitlerismo, pacifista a Lucerna, a perpetuare la tradizione dell’esule, con la figlia del banchiere senza un soldo, a intagliare pupazzi nel legno alla maniera sopraffina dei carrari di Bagheria e a far scenari per i teatri di marionette, mentre gli amici restati in patria gli scrivevano della Germania “cose mostruose”. Lo ritroviamo a Roma negli anni della Conciliazione, venuto al Sud cogli abiti d’estate in un inverno inclemente, a ghiacciarsi nei Musei e per le strade che “formicolavano di preti e di gendarmi”, tanto che si ammala, viene curato dai compatrioti e visitato da Karl Hofer.

E’ tanta la nostalgia del lavoro, che appena convalescente ritorna a Monaco. E, tipico specchio di anticonformismo, quasi di ribellione, nel 1931, alla massima apoteosi delle “camicie brune” egli risponde col massimo della sua sperimentazione astratta, forse l’unica proposta di libertà che poteva concedersi un artista in quella tragedia.

Coi pochi quadri rispeditigli dagli amici dopo il soggiorno di Lucerna, la fuga in Sicilia, la separazione da Cecilia, restò a Messina quasi tre anni, dal 1935 al 1938, in una situazione economica e psicologica di gravissima crisi, tanto che per due volte tentò di togliersi la vita. Non è a dire che l’Italia fosse anche per lui un Eden: tolta la natura, l’archeologia, la potente capacità di sopravvivenza delle classi popolari, l’aria del regime, avvertita soprattutto nella frequentazione della media borghesia, lo avvelenava anche da noi; e più forte avvertiva il divario di una cultura in quegli anni depressa nel campo delle arti figurative (i migliori artisti nati nell’isola erano emigrati al Nord, da Guttuso a Consagra, da Mazzullo a Migneco da Franchina a tanti altri), ancorata a una tradizione, nella migliore delle ipotesi, novecentesca e la sua esperienza quasi ventennale, aperta alle tendenze di avanguardia.

Fino a che l’artista veniva in Italia dalla piattaforma europea, l’Italia gli appariva dunque come una inesauribile miniera di tesori d’arte, di suggestioni nella natura; ma ora, tagliato fuori dal suo Paese, inagibile, egli soffriva tutta la solitudine di un vero abbandono, né la difficoltà della lingua poteva facilitare l’incontro con quei “solitari nostrani”, che anche allora non mancavano - anzi - ma che non conobbe.

Tornato in Svizzera, trascorse un periodo assai gramo nel continuo timore di una espulsione come cittadino tedesco, costretto ad esporre e a vendere i suoi quadri non firmati. Ma la Germania lo calamitava sempre, la nostalgia della “sua gente” era per lui fortissima, tanto più nel quadro di quella mortificazione generale. E nei buoni ed onesti come fu lui, era anche una specie di speranza impossibile, tuttavia accarezzata, di riuscire a vivere anche in mezzo ai nazisti, salvando la libertà: “I segni che in Germania si prepara qualcosa, sono evidenti e i miei amici mi scrivono cose mostruose. Voglio andarli a trovare entro l’anno prossimo per convincermi se vi potrà essere ancora libertà per il nostro lavoro o se tutto è ormai perduto. In questo caso sarà indifferente dove mi metteranno in carcere...”.

Ed eccolo nel 1939 di nuovo a Monaco. Un deserto la vita artistica, e lui troppo legato a questa per assumere, militandone fuori, un ruolo antinazista. Dalla Svizzera era partito sotto l’incubo dell’espulsione, a Monaco viveva nel terrore di un richiamo alle armi, per una guerra ben più odiata di quella del ‘15-18. Segnalato dalla polizia a Oberwössen, fu dall’oggi al domani incorporato nel servizio civile e assegnato alle Poste. Cinque anni ancora di tribolazioni, la grave malattia ai polmoni, il sanatorio, la precaria “convalescenza” nella miseria dopo la chiusura della fabbrica di tessuti per la quale preparava i disegni a trecento marchi al mese, l’ultimo suo lavoro a Zirl sulI’Inn dove affresca le sale del palazzo comunale e “l’unica (sua) gioia - scrisse nell’ultima lettera alla sorella - la lettura dei poeti greci e un quarto di vino rosso”.

Nel novembre del 1944 mentre ancora inseguiva la sua introvabile pace, la guerra lo raggiunse e lo stroncò. Respirava ancora quando fu disseppellito dalle macerie di quella incursione aerea. Il 26 dello stesse mese morì nell’ospedale di Schwaz, presso Innsbruck.

“Che nessuno si fidi di darmi in mano un fucile, tranne che contro Hitler - aveva scritto alla sorella - Certamente lui sarà ucciso prima che noi si debba imbracciare le armi e compiere ciò che lui e i suoi fanno adesso...”.  E se gli eventi non furono questi, gli riuscì almeno di marciare fino in fondo verso la morte come un soldato della pace.

Non che l’artista abbia avuto in morte tutti gli onori che meritava il suo talento, si può dire, anzi, che per la prima volta dal lontano 1944, parenti, collezionisti, estimatori, studiosi, hanno sentito la necessità di riproporre in una quanto più ampia e illuminante ricostruzione, tutta l’opera del pittore tedesco, con una serie di iniziative che ne esaltino qualità e prestigio. Ma è doveroso e confortante ricordare che, nei limiti di quei tempi stremati seguiti alla guerra, la carità di patria non mancò a Christian Hess, se già nel 1948 all’Exportschau di Monaco diverse tele dell’artista furono esposte insieme a quelle di Max Beckmann e di Willi Baumeister, due maestri tedeschi, insieme a tanti altri perseguitati dal nazismo, che tennero alta la bandiera dell’arte di avanguardia odiando la dittatura.

Vorrei cominciare la lettura delle opere di Hess con un’opera del 1922, “Baronessa con veletta”, perché l’allora ventisettenne pittore mostra con questo quadro un biglietto da visita, per dir così, stampato nei caratteri cittadini della Monaco del dopoguerra, la più “ruggente” e informata, la più spregiudicata; e anche se l’artista arriva a bloccare in un ritratto parlante il clima delle esperienze dopo i decenni della “scuola di Parigi” in virtù del suo temperamento, più di intuizione che di programma, l’opera resta pur sempre un punto fermo della sua qualità e della sua cultura: una statura, insomma, dalla quale egli potrà concedersi esperienze assai diverse e anche lontane fra loro, perfino ritorni nell’area impressionista e espressionista tout court, ma mai tornare indietro o ripiegare su posizioni di comodo. Dunque, dentro un fondo perla azzurro, serico, l’aristocratica dai capelli rossi debellati, dagli occhi a palla che guardano fra noia e ostilità, attraverso le paglie cenere della mezza veletta, celata d’aria all’indiscreto per la sua indiscrezione costituzionale, la pelle bianca su cui rossetto e bistro fanno un altro incarnato - non si strucca neppure per implorare, se mai l’ha fatto - le braccia conserte sul freddo del vestito di raso, semplice come quello di una spartana da salotto, è personaggio così autorevole e preciso, da vivere di vita propria dopo tant’anni di polvere, fra donne di eguale grinta e rispetto di questo 1974, inter pares.

Un altro dipinto a mio avviso importante, anche se di impegno minore e poco più di un bozzetto, che merita di essere illustrato al principio di questa analisi, è
“Bagnanti sul lago” (1924) di tutt’altra grana, dove l’impeto espressionista non riesce a depositarsi; ma piace la veemenza del segno tutto di pennello, il ritmo serrato della composizione, quel di più di pittoresco che dalla scena romantica di un Delacroix, diventa immagine di natura, uno dei punti di oscillazione dell’arte di Hess.

Perché è il caso di precisare subito che il pittore, per tutto il suo arco operativo, pur mantenendo una riconoscibile costante in chiave realistico espressionista, la sua bella tensione plastica per una sintesi della realtà sensibile, sperimenterà, ora in chiave di assaggio o solfeggio per una prova della luce e della cromia, ora in chiave di più approfondita progettazione nel segno e nel rigore volumetrico, altri “gusti”, passati e coevi: dall’impressionismo, risentito, per pennellata, cadenze e tavolozza nell’espressionismo - ma eseguirà anche opere legate allo schema post impressionista naturalista, per es. del tipo del nostro Arturo Tosi -, ai modi abbastanza simili a quelli del Novecento italiano, cosi come la saturazione avanguardistica li aveva collocati dentro i ripensamenti del “ritorno all’ordine” e contemporaneamente (sembra una contraddizione, ma non lo è, per un artista che viene da lontano) ai modi degli astrattisti tedeschi e italiani a cavallo degli anni Trenta, Baumeister prima di tutto.

Del resto, se in diversi momenti della sua ricca e varia carriera il pittore avvertì la lezione dell’arte italiana, assai scarsa in quegli anni di lieviti impressionisti, fu per lui piuttosto un incontro con la solarità del nostro paesaggio, in un impeto tutto tedesco, espressionista al fondo. Si guardi a questo proposito, della sua prima stagione italiana, meridionale e siciliana, nel quadro dell’
“Asinello e fichi d’india”, come è cupa e obnubilata l’atmosfera, come si assommano per macchie risentite le pennellate, a fare una tessitura irta e smagliata, come l’animale è piantato sghembo sulla sua ombra violetta, come irrompano i fichi d’india, scheggioni di luce-colore, fino a quel mulinello del cielo, che pare l’inizio di un cataclisma.

Per quanto poi riguarda la sua affinità col Novecento italiano, che dovette pur apprezzare nei suoi valori e maestri maggiori, più che l’aspetto mitico e classicheggiante, celebrativo e trionfalistico del “grande passato”
accarezzato dalle medie borghesie uscite fuori “deluse” dalla prima guerra mondiale, Hess coglie del “ritorno all’ordine” quello che Lionello Venturi chiamò il “ritorno alla natura” e dell’Italia e della Sicilia gli aspetti umani, nobilitando dentro un rigore plastico ben lontano da artifici accademici e manieristici, tipi e folklore, volti di piazze italiane e di regioni:  “Campagna di Firenze”, “Carretti e ulivi a Messina”, “Sotto i fichi d’india”, “Bracciano”, “I templi di Agrigento”, “Forte Gonzaga a Messina” - di cui e’ riconoscibile, oggi, soltanto il cucuzzolo turrito del monte - “Piazza Navona”, nel gusto incredibilmente vicino a quello del Virgilio Guidi prima della sua partenza per Venezia intorno al 1925, sono tutte presenze italiane, tanto libere, quanto responsabili: perché dovunque l’artista arrivasse in quella sua vita di pittura, o, se si preferisce, in quella pittura tutta nella vita, sapeva avvalersi della natura come di un baricentro, la sua visione era sempre “all’interno”  del luogo, non turistica, non evasiva.

E’pure del 1925
“Donna che riposa”. Mi pare che in quest’opera cosi robustamente dipinta, della dormiente che racchiude le braccia al petto per una costrizione necessitata dal rettangolo della tela, ma altrettanto naturale nella posa, come sono appunto le pose che esprimono un preciso stato d’animo e quasi una condizione della vita, il bronzeo tono della luce pomeridiana, la felicità dei pochi elementi ambientali, quel riquadro di azzurro alla brava che richiama come in un “emblema di mare” la presenza del Sud, continui la costante del pittore, collocandosi sempre più autorevolmente nel quadro dei valori umanistici conservati dopo lo scoppio delle avanguardie, senza alcuna recitazione novecentesca e senza alcuna indulgenza naturalistica.

E’ bene sottolineare a questo punto che, se parecchie opere di Hess, specie disegni e ritratti, sono affidati ad una vena di energica figurazione diretta, al temperamento del disegnatore, fin quasi a configurare nell’arte del pittore una specie di altra faccia della luna naturalistica, sempre il motivo ad olio è rimeditato con la dovuta elaborazione cromatica, diventa astratto, acquista le inconfondibili e gravi cadenze di sintesi del Maestro. Del resto, da un esame attento di tutta l’opera grafica e minore di Hess, si ricava, anche qui, che i motivi e i modi realistici non sono fini a sé stessi, ma costituiscono, il più delle volte, una necessaria preistoria all’iter maiuscolo dei suoi quadri.

Se certo non si può parlare nell’arte di Hess di una continua mediazione di Monaco con Messina, si può affermare che una cultura midleuropea e una cul–tura mediterranea abbiano trovato nell’artista parecchi punti di armonia. E fin dal 1928 il clima di Monaco, al quale si ispirò pure il De Chirico metafisico, si trasferì nella mediterraneità dei suoi soggetti e paesaggi. Come pure accadde il contrario e cioè che il richiamo luministico del paesaggio siciliano abbia preso la mano al pittore (ma con un abbandono nella carne della pittura, che alla fine si traduce in una sorta di rinsanguamento) in opere del tipo di
“Uliveto con casa”, “Via Palmara”, “Uliveto con donne.  Ma si guardi del 1927 il “Nettuno”, uno dei quadri inconfondibili di Hess quale viaggiatore del sole, quale artista pensante con la mente monacense dinnanzi a una “materia” messinese: quel Dio dell’acqua su basamento che sporge il braccio come un Cesare, più nudo che statua, fra i due rimorchiatori listati di rosso e di nero nella gran luce azzurra del porto e il popolo ai suoi piedi, mitologico e no, una assemblea da fontana che è insieme inno alla presenza muliebre, quel Nettuno che in tanti disegni e schizzi l’artista fa sbucare dietro balconi di case (alla maniera delle gigantesse di Picasso del periodo “surrealista” in bianco e azzurro o nel paterno grottesco dei barbuti vecchiardi di Savinio tra favola e archeologia) sono ingredienti di gusto aristocratico, ma calati in un sentimento che tiene conto del lavoro e della fatica, che ripresenta il paesaggio siciliano come l’habitat dell’uomo laborioso e organizzato.

Invece, sempre del 1927 col quadro “Caprone sotto i fichi d’india”  l’artista si trova, mente e sensi, tutto o quasi, “da noi”: il caprone preistorico nella calura riverberata dalle rocce, quell’albero dalle pale possenti, plasticate come per una presenza tridimensionale, quella sintesi che scatta da una visione che impressionista non è più, che cerca un’altra collocazione e la trova nei suoi ritmi di rosa e verde, di primi piani a stacco della profonda valletta. Come pure si tratta di Sicilia nel quadro appunto dal titolo “Balcone in Sicilia”, eseguito un anno dopo; ma qui - si ripetono le oscillazioni culturali e di ispirazione dell’artista - prevale lo schema astratto nella “rarefazione” dei pretesti della natura morta in primo piano nell’astrazione di una realtà sensibile, nell’equilibrio fra schema mentale e natura. E della stessa sintesi è il puro e intenso acquerello “Firenze 1928” con quel sole di mite incandescenza sul controluce smeraldo della collina. E che dire delle “punte avanguardistiche” quasi alle soglie della metafisica (ma qui veramente l’artista non passa attraverso De Chirico, se mai entrambi si rifanno a un gusto simbolico nella natura, di Böcklin) del bellissimo dipinto “Bracciano” col ponte di ferro che semi-nasconde il castello, il quale a sua volta appare con la facciata dalle finestre cieche nei neri dechirichiani, rosato, dentro l’alone del cielo? Quadro rigoroso nella “macchina” compositiva, ritmata dalle liste del ponte in una chiave grafica, intrise di verde nei tiranti che bucano la prospettiva, una delle opere che si ricordano anche al di fuori e al di sopra dell’iter di Hess.

Un gruppo di opere, tutte del 1928, stanno nel mezzo, nei punti medi delle sue vane esperienze, prevalendo, anche per l’imperativo dei temi, un gusto realistico. Mi riferisco a “Ragazza che dorme su cuscino giallo”, che presenta la medesima struttura “anti-impressionistica” del quadro del caprone, il medesimo piglio vigoroso a bloccare l’insieme, quella dolcezza calata nella forza, quel luminismo castigato nei chiaroscuri, che però si risolvono in volumi niente affatto “romantici”. Del ‘28 è anche il “Suonatore biondo”, opera che partecipò a un concorso sul tema “Musica nella pittura”, nelle due versioni che presero il titolo di “Prova al concerto 1 e 2”, dove, ovviamente, più che la musica, è personaggio il giovane suonatore di oboe, dagli occhi bruni e teneri, il pelo sulle guance non rasato, la sciarpa di seta a coprir la maglia e quelle due rughe di impennata povertà sulla fronte; a fare il present’arm col suo strumento. Hess eseguì parecchi ritratti anche su commissione, ad olio e a tutto tondo, cimentandosi anche nella scultura, che però gli servì soltanto come palestra di ricognizione plastica e che non considerò mai come obbiettivo finale di espressione.

Taluni ritratti però sono bellissimi, come il primo dipinto qui illustrato, e come questo di famiglia “La signora M. N. con i figli” (1928), una delle più belle madri-leonesse che io ricordi dei moderni, in quel gusto umanistico e “astratto”, da Cezanne, che ritrova in maniera tanto consapevole la chiave populista dei Picasso rosa e bleu, specie a guardare la testa del bambino sulla destra del quadro. Ritratto di famiglia, nel medesimo clima, può essere considerato anche il dipinto “Coppia in costume da bagno” (1930) dove il Picasso del periodo rosa sembra prender carne nella naturalezza di quell’incontro dei giovani, quasi coniugale, nella sintesi cristallina della bionda, nella croccanza dello smalto che si stratifica come se un polline si condensasse, nella luce insolitamente mattinale - che pur svaria in curiose nicchie di fondi, dietro le teste dei personaggi - in quello spazio araldico entro il quale sono collocate le figure.

Vitalità fra “attimo fuggente” e sintesi plastica è anche nel ritratto della “Donna col cappello nero” (1930), psicologicamente resa attraverso l’immensificazione degli occhi, il collocamento del busto, molto in basso rispetto alla campitura gialla del fondo, con quel lutto mentale, quel pensiero fisso, reso come rituale dal cappello a cimiero. Ritratti, come si vede, ben fuori della convenzione e dell’occasione, ma incontri con persone da capire ed amare, specchio di anime nei segni e nei colori. Come anche in “Donna in celeste” (1931) che pare una tempera, tanto la sintesi impoverisce volutamente l’iride e spegne le gamme splendenti. Il viso è scavato quasi in un bianco e nero, e l’antigrazioso della faccia, dura, disadorna, è riscattato dalla naturalezza, direi dalla umanità di questa presenza, che ride seria.

Dicevo che l’aria di Monaco rende pungenti, notazioni e temi di natura già negli anni Trenta e vi sono opere di questo momento ancora più esplicite nel gusto delle avanguardie di allora, che lo attestano, come per esempio “Case rosso-nero” uno schema di paesaggio non del tutto trovato nell’astrazione, ma con belle cadenze di geometrie luministiche, a zebrare e scheggiare di bianco il fondo di persa ceralacca. (Una tavolozza che sarebbe piaciuta al Prampolini di queghi anni). Dal 1931 al 1935 i modi, chiamiamoli cosi, realistici e quelli astratti, si alternano nella pittura di Hess con tale tensione, da costituire quasi due anime in una, due momenti che si caricano a vicenda. Si veda, della oscillazione astratta, il felicissimo dipinto “Melanzane e peperoni” (1933) ovvero la “Natura morta con la gazzetta”, risolta con l’autorità di chi ha saputo ridurre a sintesi la impressione sensibile e capovolgere verticalmente il piano, come per una contemplazione senza più un centro prospettico; “I piccioni sulla terrazza”, deliziosa fiaba tra balaustrate di marmo, cupole e nubi, queste ultime ritagliate nello spazio come forme “decorative”, eppure cosi viventi nel cielo tra ardesia e azzurro, con quelle tre soavi colombe fatte di luce, composizione perfettamente scandita e di preciso valore poetico; e, per proseguire in questo inventario di opere in prevalenza astratte, quel piccolo capolavoro delle “Aguglie sulla fruttiera” (1933), con tagli così asciutti di cromia, tra cubismo e chiaroscuro, tra pittura all’aperto e affresco nel tetro lume degli interni, che pare cugina della tavolozza degli “omini” di Ottone Rosai, e proprio negli anni Trenta.

E ancora: la “Natura morta verticale” dei pesci rossi e dei fichi d’india, modulata nella prospettiva ribaltata che s’è vista a proposito di “Melanzane e peperoni”, la “Natura morta della quartara”, più un assaggio, nella sintesi pur felice, morbida nelle gamme verdi e cotogna (1933). E se passiamo alla figura, nella quale, come ho indicato illustrando opere eseguite in vane date, l’abbandono al vero ha per Hess un ruolo importante, non dobbiamo dimenticarci che uno dei personaggi dipinti dall’artista, piü vivi e oniginali, è l’astrattissimo “Giocatore di scacchi” (1931) col braccio appoggiato alla scacchiera come su una mensola della foto ricordo, gli occhi di carbone, il chiaroscuro della faccia così metallico da creargli una sorta di pelugine, una muffa d’ombra, il magnifico riquadro del biliardo, l’ambientazione quasi funeraria del fondo sul rosso baldacchino, una delle massime punte di liberazione e di invenzione del Maestro. Ma nel discorso più legato all’Italia e al suo folklore, sono pezzi tipici di Hess, in primis, ”L’indovino” (1933), motivo assai accarezzato e riproposto dall’artista in numerosi disegni, di insieme e di particolari. In questo quadro fondamentale si assiste a una specie di inventario dei motivi siciliani, che però si armonizzano in una scena-composizione; e non perdendo per questo la loro vitalità quasi simbolica, nulla concedono ad una descrizione di comodo: il primo piano del carretto siciliano con i suoi colori arancio, bleu e rosso, il cesto delle melanzane bianche, sormontato dalla testa del pescatore con la corta pipa di gesso, inclita e cose, su cui svetta (come svetta il Nettuno sulle matrone di fontana nel porto di Messina) il personaggio della fantasia popolare, il portatore di illusorio futuro, con la coppola contadina, la tromba e la gabbietta, su cui prillano le bandierine, non esclusa quella italiana, non a caso, e per pura incidenza formale, già... repubblicana. E quale attonita curiosità, quale rispetto della gente per quel messaggero della fortuna.

Immedesimazione nel popolo siciliano, quella di Hess, per dare la necessaria compagnia alla sua solitudine di viaggiatore della pace. E ci si mise anche lui a vogare, in barca e dentro il quadro, con il baschetto rosso, la grinta che par sorridere ai nipoti, l’impugnatura ciclopica del remo per fare la storia di Scilla e Cariddi, lui del Nord, come a dire che non c’è altra patria che quella del sole, che il lavoro e la fiducia nella vita non hanno confini. Mi riferisco al quadro dal titolo “Autoritratto sulla barca” (1933).

Anche l’olio “Ladro e carabiniere” (1934) è quadro tipico dell’Hess italiano il picciotto catturato, non si sa bene se faccia semplicemente il modello per portar colombe, o mostri il corpo del reato. E senza voler calcare su questo simbolo, viene spontaneo alla mente questo "furto di pace”, nella colomba. Fatto sta che il carabiniere in alta uniforme, forse per conferire prestigio all’ingrato compito della giustizia, coi baffoni marziali per aiutare lo sgomento, la bocca atteggiata a un mezzo sorriso per farsi perdonare, si presenta quasi come un amico, un cugino dell’altro in borghese. Qui Hess ha colto in una chiave tutta insulare, che però non gli fu mai estranea, anzi, in altre drammatiche circostanze nel suo Paese, l’antica protesta del diseredato contro “la legge” ed ha atteggiato i due a una recita che si ripete ormai da secoli, la miseria che si fa colpa e perciò diventa un castigo, anche da parte della legge. E quali smaglianti colori, a dire questa parabola, quale naturalezza di scena, vista e presa, dopo tanti disegni ed acquerelli, fortunatamente conservati.

Dicevo che v’è un gruppo di opere di Hess che si avvicina al gusto del Novecento, sia per una accentuazione veristico accademica, sia per una certa “solennità” di positure. Nei dipinti più veri, collocherei “La prova delle modelle” (1931) e “Nuda in piedi che si pettina” (1932), in quelli di un certo rigore jeratico, “Riposo dei muratori” (1929), “Bagnante col turbante” e “Bagni di sole” (1931). Tra i motivi più validi dell’artista, sono, come ho già detto, quelli delle figure femminili, di vigorosa sintesi, “Nel camerino”  (1932),  “Due modelle”, “Tre modelle” (1933) e tra i nudi, quella perla di bianco e rosa, distesa sul letto di tulle trasparente, incapsulata e come riscattata dalla sua delizia, in un fondo di mare e vele metallico, che redime la straordinaria morbidezza del corpo “Suggestione” (1934) e anche “Nudo di spalle” (1931) di notevole vigore plastico, in una nostalgia dell’ultimo Renoir.

Ma voglio finire, come ho cominciato, con un altro capolavoro dell’arte di Hess, di soggetto femminile e anche questo un ritratto, che mantiene fede alle premesse già maiuscole dell’antico dipinto della “Baronessa”, la “Modella nell'atelier” (1932): a cominciare dall’originale taglio sghembo del viso, rispetto al rettangolo del quadro, la frangetta, la faccia a mandorla, il gran mento sufficiente, la pelliccia tarlata del volpino sulle spalle, ma cosi “irosa” nella cromia e nello smalto, che sembra stringersi attorno al collo l’animale ancor vivo.

Non mi rimane che aggiungere, a conclusione di questo ritratto di artista, che di rado mi è accaduto di scrivere su una personalità di pittore, a me del tutto sconosciuta e come risorta dal nulla, con l’entusiasmo e la convinzione di una antica amicizia; mi pareva di averlo avuto sempre presente, che mi dettasse lui stesso, dai quadri, naturalmente, le parole da dire. Sono tanti anni ormai che faccio il mestiere di critico e credo che sia difficile sbagliarmi, quando una voce mi chiama a questo modo: vuol dire che l’artista c’è, con il suo dolce furore di vita, la sua gloria.

Marcello Venturoli