Criticism

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Christian Hess
e il suo spazio di libertà
 
Cristina Martinelli
 
 

Un critico d’Arte diceva che il diavolo è nel dettaglio. Vero o no, le bandierine nel dipinto “L’Indovino” di Louis Christian Hess è stato per me un dettaglio diabolico, tale da costringermi, certo piacevolmente, a ricercare su questo pittore, del quale lungo altri miei percorsi avevo incontrato soltanto l’acquerello “Ragazza fra i papaveri”. Le bandierine sono state l’elemento che mi ha colpita subito, ancor prima del forte richiamo cromatico e compositivo del quadro. Perché delle bandierine sulla gabbietta della fortuna?; soprattutto, tranne quella facilmente riconoscibile come italiana, che bandiere sono le altre due? Da lì tutta una serie di domande a cascata, non ultima quella riguardante un indovino che nella nostra memoria coincide con una scena di vivace festa popolare, legata alla ingenua speranza nella divinazione, mentre nel dipinto di Hess, con la compostezza della posa delle figure e il segno dei loro sguardi, trasmette una malinconica rassegnazione, se non addirittura degli interrogativi ricolmi di paura.

Alla mostra
CHRISTIAN HESS, allestita presso il Museo Civico di Bolzano (26 novembre 2008 - 30 gennaio 2009), “L’Indovino” (Messina 1933) è stato uno dei quadri più ammirati, e non soltanto da me, per l’empatia con il sentimento profondamente umano di indagare la vita attraverso il comportamento degli altri, anche di quella piccola folla rappresentata, che accorre per qualcosa che accade. Il dipinto, a partire dalle sue dimensioni (120 x 100 cm.), è una scena piena che costringe ad “affacciarsi a guardare”, come nella realtà ci si affaccerebbe al balcone per vedere la gente comprare i “Pianeti”, anche senza credere alla Fortuna, perché già l’affollarsi senti che ti interessa, perché è vita pulsante.
Forse, proprio grazie a questa sua forza intrinseca, fu l’immagine usata per illustrare il cartoncino di invito della Mostra Palermitana della “Riscoperta” di Christian Hess del 1974, al trentennale della sua morte (Bolzano 1895- Schwaz 1944). Scelta anche in seguito come l’emblema per tutte le tappe della Mostra itinerante in varie città italiane, in Austria e Germania, si disse per un evidente rimando a
tematiche e figure siciliane, e questa lettura è perdurata a lungo.

Nel Catalogo 1974 Marcello Venturoli scriveva:
“Nel discorso più legato all’Italia e al suo folklore, sono pezzi tipici di Hess in primis, “l’Indovino”, motivo assai accarezzato e riproposto dall’artista in numerosi disegni di insieme e di particolari. In questo quadro fondamentale si assiste a una specie di inventario dei motivi siciliani, che però si armonizzano in una scena-composizione; e non perdendo per questo la loro vitalità quasi simbolica, nulla concedono ad una descrizione di comodo: il primo piano del carretto–siciliano con i suoi colori arancio, bleu e rosso, il cesto delle melanzane bianche, sormontato dalla testa del pescatore con la corta pipa di gesso, inclita e cose, su cui svetta (come svetta il Nettuno sulle matrone di fontana nel porto di Messina) il personaggio della fantasia popolare, il portatore di illusorio futuro, con la coppola contadina, la tromba e la gabbietta, su cui prillano le bandierine, non esclusa quella italiana, non a caso, e per pura coincidenza formale, già repubblicana. E quale attonita curiosità, quale rispetto della gente per quel messaggero della fortuna”

Di più, nel corso degli studi preparatori del progetto della “Riscoperta” si sottolinearono alcune specifiche somiglianze tra la pittura di Hess e quella di Renato Guttuso, fino a considerare il pittore tedesco il progenitore di un Espressionismo siciliano. Proprio in questa ottica Leonardo Sciascia nella prefazione al Catalogo del 1974 scriveva di lui:
“Non è poi senza significato il fatto che l’artista proveniente dal centro Europa, maturato in più complesse esperienze, si trovasse a vedere e a dipingere con leggero scarto di anni, le stesse cose che il giovane Renato Guttuso vedrà e dipingerà in quel suo felice periodo che prende nome da Scilla. Non allo stesso modo, ma le stesse cose”.

Allora Domenico Maria Ardizzone cercò inutilmente di coinvolgere Guttuso, il quale si limitò a rispondere che non conosceva Hess, che sapeva soltanto della sua presenza all’Aspra e che forse lo aveva anche visto dipingere. Tuttavia, il binomio Hess - Guttuso ebbe degli sviluppi, tanto da proporre l’accostamento di opere dei due artisti, trovandovi “evidenti consonanze”, perlomeno tematiche. Così, “L’Indovino” è stato affiancato alla “Vucciria”
di Guttuso, in quanto come questa sarebbe un condensato di motivi siciliani.

* * * *

Nell’avviare la mia lettura de “L’Indovino” e muovendomi con grande attenzione tra la Critica precedente, parto facendo mia l’affermazione di Emilio Argiroffi:
“Non credo si possa accettare l’idea riduttiva, secondo la quale, in qualche modo, la pittura di Hess racconterebbe ancora una volta che la Sicilia è lì, con il suo sole, i suoi fichidindia, il mare, il candore abbagliante e incorrotto della sua sensualità panica, la molteplicità ardente e geografica dei suoi desideri pagani. [….] Il problema è qui di ravvisare negli elementi descrittivi isolani il materiale plastico esistente, con le sue mitologie antiche e incancellabili, e però di assumerlo come alfabeto descrittivo e variamente componibile, per la sola ispezione che si può tentare in direzione di un autore tanto allusivo”.


Ecco, io ritengo che proprio “L’Indovino” è ad un tempo chiave di lettura e sintesi felice di un capitolo a sé nella produzione artistica di Hess, anche rispetto a tutto ciò che complessivamente è scaturito dal suo contatto con la Sicilia. Hess non si è appagato di una pura osservazione dei paesaggi mediterranei, della vita quotidiana di quel mondo circostante, non è stata soltanto una delle varie sperimentazioni, magari a conti fatti, considerato che lo ha portato ad acquisire un differente uso del colore e della luce, la più importante nel suo processo di maturazione artistica. Questo potrebbe anche apparire perfettamente definito, relativamente al primo soggiorno, quando, tuttavia, ai suoi amici artisti in Germania aveva scritto “Questo dovrebbe essere il paradiso”, con un condizionale che deve far riflettere e, in effetti, i lavori di questo periodo, come anche di quelli successivi, sempre brevi e di vacanza presso la sorella Emma, sono proprio lo sguardo del viaggiatore-artista che vuole cogliere lì il reale, l’espressività della gente siciliana, il mezzo per far diventare più esplicita la sua inclinazione per i valori coloristici.
 


Casa con fichidindia
(Messina 1927)
 


Ragazza e bambino su
un asino (Messina 1928)


Arcobaleno (Messina 1930)
 


Paesaggio in Sicilia
(Messina 1928/30)


Case in riva allo
Stretto (Messina 1931)


Natura morta con fiori, frutta
e fiasco di vino (Sicilia 1929)


Pescatore con giubba
rossa (Sicilia 1929)


Nelle varie permanenze estive fino al 1930 la Sicilia fu certamente la sua principale fonte d’ispirazione, la terrazza alla Palmara fu davvero per Hess il punto di osservazione privilegiato, il laboratorio da dove osservare la luce, tanto che, quando la sorella gli comunicò il suo trasferimento in un’altra zona di Messina, le rispose: “Poiché tu forse cambi casa, è un grande peccato, cioè per me perché io amo tanto la terrazza e la bella visuale sul mare e non  meno che ad essa sono legati molti bei ricordi di ore trascorse là. Io ti auguro veramente una villa, cioè un vero W.C. con un vero sciacquone ed un bagno. Per me è come se perdessi la mia patria se tu traslochi dalla Palmara. Sono stato là 5 volte e l’ambiente gioca un ruolo considerevole nel mio sviluppo artistico”.

Non è stata questa l’unica perdita, ben altri traumi, troppe costrizioni per lui perché non pesassero sul suo lavoro dei tre anni di rifugio siciliano (1933-‘35), a cui appartiene “L’Indovino”. Quella stagione, senza essere slegata da tutta l’opera di Hess, è attraversata da una maggiore irrequietezza, una sorta di ricerca di corrispondenza tra il mondo oggettivo e l’espressione del proprio “io”, l’emotività data da una tragica condizione personale, all’interno di un quadro politico fortemente connotato, determinante nel destino di tanti e specificatamente dello stesso Hess. Nell’isolamento insulare, a cominciare dalla lingua, per non dire della perdita della rete di contatti che nel cuore dell’Europa gli erano stati possibili, Hess dipinge moltissimo, e questo è conseguenza non soltanto della ritrovata libertà di espressione, ma della necessità di riempire un vuoto, di un affanno per individuare nell’umanità dell’isola una verità essenziale ed eterna ed interpretarla simbolicamente col suo sguardo non di semplice spettatore, ma di artista. Questo gli consente una velata denuncia di ciò che l’ideologia stava preparando, i cui effetti egli aveva già conosciuto.
Nel 1929 Hess aveva aderito all'Unione di artisti monacensi “Juryfreie” (Fuori giuria) che si prefiggeva di dare agli artisti la possibilità di libere ricerche e sperimentazioni. Per Hess fu un periodo intenso di lavoro ed esposizioni a Monaco, Danzica, Kessel, Berlino, ma la “spietata guerra di pulizia contro gli ultimi elementi di degenerazione della cultura tedesca” non tardò a produrre i suoi effetti deleteri anche su questa associazione e nel marzo del 1931 le SA, durante una conferenza sull'arte moderna della “Kampfbundes für deutsche Kultur” (Lega della lotta per la cultura tedesca) irrompono nei locali della Juryfreie, vicenda che Hess così descrive in una lettera alla sorella: “Pochi giorni fa, durante una conferenza sull'arte moderna, abbiamo presentato una protesta. Hartmann ed io siamo stati buttati fuori dalla sala per primi, altri due colleghi sono stati picchiati”. In un’altra lettera ad Emma lamenta: “Tutta la situazione politica è turbolenta e non si può più dire una parola ragionevole che subito si pensa che si voglia o no entrare in politica. Come sarei contento di trovarmi in Sicilia e non sentire nulla di tutto ciò”.

Nel crescendo di brutalità, il 6 giugno del 1931 brucia per un incendio doloso il Glaspalast con circa tremila opere, fra cui molti dipinti dei partecipanti della “Juryfreie”. Hess, che nel rogo perde molti dei suoi lavori, scrive: “Ho visto l'incendio, è stato terribile doverlo osservare completamente inerme” e ancora in una lettera del '32: “Le previsioni per il futuro non sono più rosee, né politicamente, né economicamente (...) dove si va e con chiunque si parli, tutti si lamentano per la mancanza di denaro e la politica è il grande tema”.
Infine, nel 1933 arrivano le misure legali conosciute come Gleichschaltung che hanno come obiettivo vero quello di orientare il pensiero di ogni cittadino tedesco nella direzione dell'ideologia ufficiale del Partito, eliminando ogni forma di individualismo. Dopo l'aperta presa di posizione degli Juryfreien contro la politica culturale nazista, in quello stesso anno l'associazione è definitivamente sciolta dal regime perché considerata “bolscevica”.
E’ in seguito a questi avvenimenti che Hess si trasferì a Messina per restarvi dal 1933 al ’38, in una situazione economica e psicologica di gravissima crisi che per due volte lo condusse persino sull’orlo del suicidio. Non più per rivedere la sorella o turista, seguendo la moda che fin dai primi anni del XIX secolo aveva portato in Sicilia una lunga schiera di pittori tedeschi. Esilio volontario, ma pur sempre un esilio, che lo costringeva a rinchiudere in una dimensione isolana l’internazionalismo culturale della midleuropa che gli apparteneva ormai e col quale era entrato in contatto diretto oppure nella stessa Monaco. La città, infatti, intorno al 1920 era attraversata dalle più svariate correnti culturali che Hess andava largamente sperimentando. Ora nel suo destino improvvisamente un’isola che è per definizione un posto staccato e remoto, una prigione a cielo aperto, come lo furono altre isole italiane per gli oppositori del Fascismo. Nonostante il vantaggio per lui di aver già soggiornato in Sicilia con altro spirito e motivazione, il doverci stare e basta, senza una prospettiva per il futuro, psicologicamente non poteva che avere un peso negativo.

Non è logico pensarlo, dunque, sereno e rassegnato in questo lungo soggiorno siciliano, resosi necessario per la sicurezza personale, certamente per la salvaguardia di una accettabile libertà d’espressione artistica. In questa fase della sua vita non è escluso che avesse accumulato indignazione, paura, forse rancore per quei suoi quadri dati alle fiamme e rimpianto per gli ormai irripetibili successi espositivi. Hess non è interessato alla politica militante, vorrebbe soltanto non sentire la volgarità che attraversa il suo Paese e, d’altronde, il suo senso morale gli impedisce di accettare passivamente, di non salvaguardare la dignità come uomo e come artista. Egli è un pacifico cittadino, ma consapevole, non vive voltato indietro, ma proiettato in avanti; basti osservare come, pur avendo certamente riportato immagini e sentimenti forti dalla sua partecipazione alla Grande Guerra sul Fronte a Verdun, tranne che per “Il Milite” (Messina 1938), non è mai andato a ripescare in quel serbatoio di esperienze per esprimere la sua etica della vita. Di temi legati alla guerra non vi è traccia nella sua opera, ma più tardi scrive “Mai più prenderò un fucile se non contro Hitler” (lettera alla sorella 1934/35) e nel ’42, soltanto in situazioni di scarsa lucidità gli sfuggono dai tavoli delle osterie tirolesi frasi di dissenso contro il regime. Questa coscienza, insomma, evolve nella sua opera come evolve il condizionamento politico della sua esistenza, ma rimane nella sfera del tormento intimo, che per un artista non può che coincidere con l’opera, da dove ci rende testimonianza.

Negli anni tra il 1922 e ’29, infatti, Hess aveva dipinto interni, nature morte, nudi, personaggi, molte donne, nei quali è evidente una aspirazione alla bellezza classica, negli anni ‘30/31, quando il nazismo si impone, diventando un pericolo per il libero pensiero, egli trova riparo nell’astrazione, infine in Sicilia cerca all’esterno una modalità altra di espressione del suo disadattamento. Allora, prevalgono inizialmente i paesaggi con un colorismo crescente, ricco di sfumature, la forza dovuta alla luce mediterranea (basti confrontare i bagnanti del Baltico con lo stesso tema colto in Sicilia) e infine scopre la forza vitale intrinseca nelle cose, nella natura, nella gente siciliana.

Giova a questo punto seguire una minima cronologia di opere per rendersi conto di come, oscillando tra espressionismo, astrattismo e anche quello che sembrerebbe realismo, cioè le scene di genere, Hess racconta il suo travaglio interiore. Gli episodi di vita quotidiana a Messina non sono altro che composizioni allegoriche, nelle quali far coincidere l’esperienza visiva con la sua anima di tedesco, un tedesco emarginato nel momento del massimo orgoglio nazionale, un artista umiliato e ingabbiato in quell’isola, dove accortamente portare avanti la sua personale battaglia di libertà. Opera sommersa, nascosta dietro segni, a volte senza la sua firma. Hess cerca nella teatralità siciliana la rappresentazione del dramma personale ed epocale e lo fa con compostezza aristocratica, riflesso anche della classicità a cui aspira. Ne risulta un lirismo nuovo che, però, non riesce a nascondere la sofferenza di fondo.

“Nettuno” (Messina 1927): nel dipingere il Nettuno della fontana di Messina, Hess sembra approfittare della figura possente del dio del mare che, diversamente che in altri monumenti (sicuramente deve aver visto quelli di Firenze e di Bologna e probabilmente conosceva anche quello di Trento), qui ha il braccio destro alzato per comandare a Scilla e Cariddi di calmarsi e placare la furia delle acque. Però, a ben guardare, mentre dal Nettuno messinese, tranne lo spavento dei due simboli mitologici delle forze avverse, arriva a noi un rassicurante messaggio di giustizia, dato innanzitutto dalla gamba sinistra del dio portata in avanti in atteggiamento di riposo, questo di Hess è piuttosto un dittatore rozzo, vuoi per come occupa lo spazio, che per l’espressione torva che finisce per rappresentare la forma del potere tout court. Alle sue spalle lo Stretto di Messina con due piroscafi ingombranti a lui simmetrici, la ciminiera dell’uno listata di rosso, per l’altro di nero, come ad adombrare in quel cromatismo le due ideologie in campo. Ad avvalorare questa lettura, i tanti disegni, bozzetti e schizzi, nei quali l’artista cerca di adattare un Nettuno che occupa meno spazio, perché a mezzo busto, ma ancor più dissacrato e dissacratore nel gioco di sbucare a braccia incrociate da dietro le case per beffarsi del popolo che ai suoi piedi conduce con fatica la propria vita. Non manca, neanche in questi lavori, il mare alle spalle, un bastimento o un veliero senza vele, e la colomba, magari in picchiata.

“Matrosen” (Messina 1930): In Primo piano due marinai: uno regge un pappagallo, la cui simbologia, oltre a quella mariana dell’elezione e della verginità e quella legata alla sua facoltà di animale parlante, che ripete, cioè dell’essere sospinti a idee altrui, essere ammaestrati, in relazione a questo contesto, direi che alluda piuttosto alla saggezza, alla ragione, ai progetti affascinanti e alla mobilità. Il marinaio, nella posa di profilo per guardare l’animale esotico, è come se si orientasse per un viaggio, una migrazione. L’altro guarda all’entroterra, ma i due marinai, essi stessi incarnazione del viaggio, sembrano uno solo ed il suo doppio. Sullo sfondo piroscafi (uno è il Principessa Giovanna?) e dal porto di Messina si era partiti in tanti per le Americhe proprio su questo tipo di imbarcazioni. Hess vuole, dunque, rappresentare la difficoltà di scegliere tra l’andare e il restare. E’ la stessa condizione esistenziale, descritta in “Testa e Mano”.

“Testa e mano” (Monaco di Baviera 1932): centrale in ogni senso è un braccio sollevato, rappresentazione iconica dell’espressione di sgomento “mettersi le mani nei capelli”, ma qui su di una testa senza volto, cioè il vuoto angoscioso dell’anima che prepara alla testa scura, la quale, comunque, guarda nella direzione opposta. Michele Steinfl in quel ”anti-volto” vede simbolicamente ritratto “una frequente condizione umana […] nel momento […] della notte dell’anima e della grande contraddizione”.
Ma, se Steinfl vede sorgere attraverso i simboli dell’arte di Hess un uomo nuovo, resta pur sempre la necessità presente di guardare dall’altra parte.

“Colombe sulla terrazza” (Messina 1933): tre colombe rinchiuse in uno spazio molto delimitato sullo sfondo di un grande cielo nero e irreale. Un po’ di chiarore soltanto nei tre squarci di differente estensione, delineati senza troppa convinzione, così che tutto l’insieme risulta livido e triste. Come per i soggetti umani in altre composizioni simboliche, anche queste tre bestiole sono vicinissime, eppure non comunicano tra loro, sembrano anzi indifferenti a tutto ciò che è intorno. La cupola del Cristo Re e lo Stretto  sempre davanti allo sguardo dell’artista, quasi un limite geografico invalicabile. Nel disegno preparatorio di questo dipinto ad olio, un lapis sul verso di un volantino tedesco che in trasparenza lascia intravvedere  delle svastiche e la scritta “Actungh”, si indovina lo studio su geometrie nella pavimentazione della terrazza, nelle scale in primo piano e, forse anche nella balaustra, alla ricerca di segni che potessero rimandare ai simboli nazisti.
Già Domenico Maria Ardizzone aveva notato come Hess avesse voluto contrapporre “le sue colombe della pace agli emblemi dell’odio”. Ma a questa simbologia diretta, a me sembra potersi aggiungere che le colombe sono lo stesso Hess con la sua indole pacifica, rinchiuso sulla terrazza della casa di Messina, apparentemente libero, sostanzialmente impossibilitato nel movimento da un cielo così scuro e minaccioso.

“Ladro e carabiniere” (Messina 1934): ancora due colombe bianche in primo piano, portate da un giovane, quasi fosse il suo biglietto da visita, al carabiniere italiano che lo affianca. I due personaggi non comunicano tra loro, guardano qualcos’altro davanti e, mentre il carabiniere, a labbra dischiuse, ha un’espressione di comprensione, il giovane col suo sguardo accigliato sembra  preoccupato, non disperato, però. Se il carabiniere è la Legge, l’altro, Hess stesso, non vuole che stare lì in pace, dopo essersi lasciato alle spalle lo Stretto, la via che collega al Continente.

La disamina delle rappresentazioni simboliche ha volutamente trascurato quelle esplicite già nel titolo delle creazioni, come  i “Colombi” con tutte le sue variazioni, “Giobbe”, le “Brocche rotte”, per concentrarsi sugli esempi nei quali Hess sembra ricorrere ad un simbolismo più ricercato e sotteso che gli consenta di denunciare senza troppi rischi la sua situazione e, per conseguenza, il nazismo. Il mio discorso su Hess, infatti, più che cercare una possibile altra analisi tecnica ed estetica, vuole inserirsi nel processo di Memoria della Storia del Novecento, che renda giustizia anche a quei pochi Tedeschi che come Hess, pur non essendo stati né allineati, né oppositori attivi, avendo saputo mantenere anche un piccolo spazio di libertà d’espressione, hanno conservato una dignità al popolo tedesco in quella sua brutta stagione.

Lettura de “L’Indovino”
 

Ripartendo dalle bandiere, dopo l’italiana, ha maggiore attrattiva quella bianca e rossa. La bandiera del Principato di Monaco è così composta, ma il Principato non evoca nulla nella biografia del nostro artista per ritenere che fosse stata inserita volutamente. A colori invertiti tale è anche la bandiera della Polonia e questa nazione nel 1933 era già oggetto di sguardi rapaci, di cui oggi tutti sappiamo la portata virulenta delle conseguenze. Scientemente Hess potrebbe aver voluto disseminare un errore che servisse da camuffamento al suo messaggio? Così ragionando, allora, perché non ipotizzare trattarsi della bandiera del Tirolo e della sua Bolzano che hanno gli stessi colori, ma con il rosso sotto al bianco? Potremmo, poi, ritenere la terza bandiera quella della Baviera e della città di Monaco che era diventata così centrale nella vita artistica di Hess. Lo Stato Libero di Baviera possiede, infatti, due bandiere con la stessa validità, una a losanghe e una a strisce. La bandiera a strisce presenta due bande orizzontali di uguale larghezza nei colori nazionali bianco sopra e azzurro sotto. Stabilita ufficialmente per decreto del re Luigi II l'11 settembre 1878, fu ammainata allo scoppio della rivoluzione del 19 novembre 1918. Di nuovo adottata per il Land Libero con la costituzione del 14 agosto 1919, fu abolita proprio dal 1933, durante il Terzo Reich ed, infine, riconfermata dalla nuova costituzione del 2 dicembre 1946. Se non vogliamo, dunque, accettare l’ipotesi che Hess, il quale indubbiamente fa una pittura colta, abbia messo tre bandiere con colori a caso, potremmo spiegarci anche il particolare dello stemma sabaudo mancante in quella italiana, così com’era all’epoca, concludendo che si può pensare che in tutte e tre egli abbia cercato una variante che ne impedisse subito e inequivocabilmente la riconoscibilità o almeno fornisse elementi di dubbio e nascondimento; non dimentichiamo che anche l’Italia era in un regime vicino a quello tedesco.

Così, si apre facile la via ad una interpretazione de “L’Indovino” come di una composizione, dove ogni elemento abbia un suo significato, una quinta teatrale, insomma, con i personaggi che recitano una parte. Soprattutto se confrontiamo il dipinto ad olio con altri tre studi sullo stesso tema ispiratore, tra cui un acquerello (Messina 1933), e un lapis su carta (Messina 1933), possiamo rafforzarci nell’idea di una ricerca compositiva intorno al soggetto dell’indovino che, infatti, resta uguale in tutti e tre i casi, sempre le stesse bandiere ed il mare alle spalle; soltanto più ampio il mare con un veliero a vele ammainate in lontananza ed una sola figura femminile. In quello del ’34, inoltre, la “gabbietta” perde i cassettini per i foglietti della fortuna, mentre si arricchisce di fiocchi da tappezzeria da proscenio, sul quale la collocazione e il messaggio del merlo è più evidente che negli altri casi.

In queste varianti, come nel dipinto ad olio e come in tutta l’opera di Hess, la solidità fisica dei personaggi, i volti immobili, distaccati, apparentemente introversi e muti, trasmettono una grande malinconia. E’ una realtà interiore evocata più che descritta e che, nonostante tutto, tende verso una positività che crede ancora possibile. Se l’opera di un vero artista non è mai separata dalla vita, quella di Christian Hess, esule a Messina, è l’espressione di un moto interiore ben preciso: i vari soggetti, animati o inanimati, compreso l’indovino, sono Hess nella lotta con se stesso. Nessuna missione sociale e politica, soltanto un bisogno catartico personale e, tuttavia, non meno significativo di un’etica pubblica, perché l’Arte non è questione del singolo individuo, ma attenendo al sacro, appartiene all’Umanità.


Nel dettaglio

Sfondo:
Simbolico dell’esilio lo Stretto alle spalle, col mare mosso e il cielo che si annuvola. Le costruzioni chiuse o delle quali è visibile solo il tetto, sono l’appoggio per due colombe che guardano l’orizzonte.

Lato destro:

I personaggi su questa parte del dipinto raccontano il disagio, un’umanità sofferente. L’uno con la calvizie, che nella tradizione esegetica rappresenta una sorta di marchio per rendere visibile la colpa, oppure la stoltezza, giacché nel Medioevo si riteneva necessario rasare il capo agli stolti e ai folli in maniera da favorire, attraverso l’eliminazione del pelo, anche l’eliminazione dell’umore melanconico; con riferimento ad un’epoca più vicina a noi, il capo rasato rimanda ad una igiene da prigione. Questi è l’unico che guarda ed indica con la mano sollevata il merlo. Un altro personaggio ha le mani giunte che ne rendono la figura chiusa; egli ha, inoltre, lo sguardo spalancato e perso. Dietro questi due una donna dal volto scuro e austero con sul braccio sinistro un bambino. Il capo della donna è coperto in un modo che richiama la veste a sbalzo per le icone bizantine, una Maria Odigitria che indica e guida lungo la strada, che istruisce e mostra la direzione. Il suo sguardo ieratico è il solo che sembra fissare chi guarda il dipinto e che contemporaneamente ne è catturato. Viene da pensare alla grande tradizione europea della Madonna nera di Jasna Gora che i Polacchi, soprattutto, sono abituati a legare a tutte le più diverse vicende della loro vita, ai momenti lieti come quelli tristi, alle decisioni solenni.
 

Centro:

Ampiamente occupato dal personaggio dell’indovino con la sua gabbietta e la tromba. Solitamente questo personaggio portava un abito nero piuttosto allampanato, un cilindro pure nero, una camicia bianca ed una cravatta rossa. Su una spalla aveva un pappagallino che, in cambio di poche lire, estraeva i foglietti della fortuna da una cassetta di legno portata a tracolla. Per chiamare a raccolta la folla l’indovino suonava una fisarmonica o un organetto. Qui abbiamo, dunque, alcune varianti nell’abbigliamento dell’indovino, nel tipo di gabbietta, nell’uso di un merlo al posto del pappagallo e, soprattutto, particolare è quella tromba, posizionata come se dovesse usarla il merlo. Il venditore della fortuna di Hess non ha quasi nulla dell’omino girovago ed illusionista, anzi una certa insistenza sul disegno della sua piramide nasale costringe a ricordare quella degli autoritratti dell’artista. La fissità del personaggio, malgrado la torsione della testa verso la parte sinistra, e lo sguardo segnato da amara disillusione, sembra dire a tutti gli astanti che si dissocia dall’annuncio, che il peggio deve ancora avvenire, mentre va ad incrociare quello della figura in rosso giusto nel lato sinistro del dipinto.
 

Lato sinistro:

Due figure femminili, una dietro vestita di bianco, l’altra di rosso, il colore del desiderio di cambiamento, ma anche il colore che indica il presente. Spazialmente questa figura è vicina al primo piano che ella sembra proprio indicare con l’indice.

Primo piano:
Un carretto siciliano appena richiamato dalla cromia dei disegni di parte di una delle sponde. Il carretto siciliano era un mezzo di lavoro, ma veniva dipinto, spesso con temi sacri, per dare un tocco di colore alla fatica, per esorcizzare ogni pericolo del male, infine per spostarsi protetti. Sopra il carretto c’è una cesta di melanzane bianche, che sono un potente simbolo portafortuna. Dietro al carretto un marinaio con la barba incolta, la coppola e la pipa, immagine di abbandono e di attesa paziente.

Così, da questa analisi risulterebbe che Hess ci ha illustrato ciò che su un ipotetico foglietto acquistato dall’indovino egli avrebbe letto: “Bolzano, Monaco, Messina: in questo triangolo si gioca il tuo destino. Oggi non devi guardare dalla parte dove c’è solo rischio per te, dove ti procureresti angoscia e sofferenza. Puoi inviare un augurio di pace a quelle terre che hai dovuto lasciarti alle spalle e, come fa un marinaio, saper attendere pazientemente che il tempo migliori. Protetto dall’isolamento della Sicilia, qui è ora la tua fortuna”.

                                                                                   Cristina Martinelli